Processo a un partigiano.
di Giancarlo Piacci
Redstarpress, 2015
pp. 63
€ 9,00
Giancarlo Piacci, giovane libraio napoletano da sempre diviso tra l'attivismo politico metropolitano e la passione per la storia, esordisce con un'opera teatrale coraggiosa, capace - come testimonia il buon successo della messa in scena napoletana, lo scorso Dicembre - di suscitare l'interesse del pubblico mettendo insieme elementi a prima vista non del tutto omogenei: la prosa diretta, l'impegno politico, il fascino per la sperimentazione letteraria e per le scelte narrative forti.
In effetti, Non ci rovinate il pranzo non è quello che ci si aspetta. Sin dal sottotitolo e dalla copertina emerge il tema della Resistenza, autentica passione dell'autore (laureato in Storia contemporanea). Già l'ironia del titolo rimanda al complesso tema della memoria, alla questione del perdono e della giustizia, ma soprattutto del destino di vincitori e vinti a fronte del tempo che passa. E in fondo quella di Piacci è un'opera sul tempo, sul tempo che passa ma non viene cancellato, sul passato che non è mai troppo lontano e che nessun futuro può redimere. La storia, raccontata nella bella prefazione della giovane storica romana Ilenia Rossini, è quella dell'ex partigiano Giuseppe Bonfatti, che nel 1990, dopo un esilio brasiliano di decenni, tornò nel proprio paesino (Viadana, in provincia di Mantova) per «farla pagare» a Giuseppe Oppici, ex fascista colpevole di avergli rovinato la vita. L'omicidio, perpetrato per mezzo di una gravina - strumento che ricorda il piccone che aveva già ucciso Trockij - ebbe una certa risonanza al tempo, scatenando un acceso dibattito sulla questione più spinosa del dopoguerra: come seppellire i mille rancori, le recriminazioni, gli odi che per anni hanno divampato tra fascisti e antifascisti?
Questa la domanda di Piacci, questo l'oggetto del suo sforzo letterario. Se però dal punto di vista dei contenuti l'opera può essere facilmente catalogata come un esercizio di antifascismo consapevole, è dal punto di vista stilistico che un certo spessore diviene immediatamente riconoscibile. I tre atti vedono dapprima l'omicida in un'aula di tribunale, in balia di un giudice frettoloso e di un pubblico ministero sordo a qualsiasi legge che non sia quella scritta su carta. Nel secondo prende vita un dialogo surreale tra diversi Bonfatti, che si criticano, si deridono, ricostruiscono a vicenda le luci e le ombre di ciò che è stato e che non può più non essere, ma anche di ciò che avrebbe potuto essere se non si fosse consumata la tragedia opera di Oppici. Nell'atto conclusivo il tribunale si fa teatro, il processo spettacolo, e il lettore viene proiettato quasi sul set di un reality televisivo. Sullo sfondo, costantemente, il rintoccare ossessivo delle ore dieci e venticinque, l'orario in cui - nel 1980 - esplose la bomba nella stazione di Bologna. Più precisamente, dunque, Piacci ha scritto un'opera sul tempo fermo, perché infranto. Un'opera sull'impossibilità di andare avanti rispetto alle tragedie degli anni della «guerra a bassa intensità», e sull'ipocrisia di chi condanna la giustizia con le parole della norma.
Non ci rovinate il pranzo è tante cose: il ritratto psicologico di un uomo consumato dall'odio, una riflessione sull'esigenza di giustizia, una condanna spietata della dimenticanza e della frivolezza dei contemporanei e della società tutta. Tutto questo viene reso con uno stile che si assesta tra l'esistenzialismo e il teatro dell'assurdo, mostrando lo sforzo di trovare una voce originale, ma anche di raggiungere il difficile connubio tra appassionata partigianeria e spietata verità. È per questo che Piacci non concede sconti nel descrivere il personaggio di Bonfatti, è per questo che non si ferma nell'immaginarne le pieghe psicologiche più oscure. È per questo, d'altronde, che l'opera di Piacci è solo liberamente ispirata al partigiano mantovano, impegnata com'è nel tentativo di emanciparsi dalla contingenza dell'evento e di elevarsi all'universalità delle esigenze che pone.