Romana Petri
Neri Pozza 2015
pp. 592
€ 18.00
Scrive Umberto Eco che «le terre e i luoghi leggendari sono
di vario genere e hanno in comune solo una caratteristica: sia che dipendano da
leggende antichissime la cui origine si perde nella notte dei tempi, sia che
siano effetto di una invenzione moderna, essi hanno creato flussi di credenze»
(Storia delle terre e dei luoghi
leggendari, p. 9).
Il libro di Roma Petri crea un flusso di credenza, ma
attraverso un processo tutto particolare, inscritto nella sua stessa natura e
nella propria genesi. Partendo da frammenti di ricordi veri o immaginati (non
c’è invenzione, sia chiaro, quanto piuttosto una mente che ricostruisce con il
cuore quello che non ha potuto vedere), la scrittrice riscrive il mito del
padre.
Mario Petri non è un fantasma scomodo con cui la figlia deve
risolvere a tavolino un conto doloroso o rancoroso: è una figura a metà fra
l’amico, il genitore, il genio e l’artista, che diventa personaggio di un mito
moderno, e si cristallizza nell’immaginario del lettore.
La leggenda di Ulisse è stata raccontata da tanti: ma tutti
hanno dovuto fare i conti con l’archetipo omerico o con quello dantesco. Il
mito di Mario Petri deve fare i conti con un passato che parte dalle sfumature di
ricordo non vissuto personalmente, ma vissuto nel cuore e ricostruito nella
mente; ma deve anche arrivare alla memoria viva e carnale di una testimone,
Romana, che non ha paura di dire io.
È un racconto colmo d’amore, ma è anche ironico, giocoso,
tragico, commovente: i virtuosismi non sono lasciati alla lingua o allo stile,
ma alla trama stessa, che si colora di note musicali, di litanie, di cori. Si è
di fronte a un romanzo corale, su cui, tuttavia, domina l’imponente gigante
fragile.
Una figlia che scrive delle debolezze, dei vizi, delle
incomprensioni, dei fallimenti del padre, senza giustificarlo, anzi: accetta
definitivamente la non perfezione, propria di chiunque, anche di un padre
adorato.
È in questo senso che si muove il racconto di Romana Petri:
in un vortice lucido, ma mai razionale; calibrato, ma mai calcolato;
affettuoso, ma mai lezioso.
Forte di una lingua mescidata, e forse per questo
estremamente raffinata (ma non opulenta), la scrittura de Le serenate del ciclone emerge dalla trama, sovrastandola in alcuni
punti, ma senza mai metterla in ombra: tutto è necessario, nessuna pagina è
meno efficace delle altre. Ogni parola, ogni spazio, ogni pausa, persino i
bianchi devono concorrere a un sistema combinatorio: l’insieme si
particolareggia nei dettagli, ma, come in puzzle, se uno di questi viene tolto,
crolla l’immagine. Ogni episodio predice quello che sarà, e riprende, senza
ripetere, quello che è stato detto. Il lettore è quindi trasportato in una
lettura d’un fiato: non c’è un punto in cui si può dire «Ora mi fermo».
Una lettura centripeta, ma piena di forza centrifughe:
sembra quasi di essere accanto a Mario Petri prima, a Romana Petri poi, nei
loro spostamenti. Questo movimento a vortice non è brusco, non è costruito su
punti di svolta o su improvvisi contrappunti: è melodioso, come il canto del
protagonista.
Un romanzo meditato, ma soprattutto metabolizzato: è
tangibile una scrittura di getto, di pancia, partorita; eppure è altrettanto
percepibile la riflessione della Petri sul manoscritto, il distacco di chi guarda
crescere la propria creatura senza quella fiducia cieca di madre innamorata.
Romana Petri gioca sulle coppie: ogni personaggio ha uno
specchio in cui riflettere e riflettersi. Non a caso il libro è diviso in due
parti: nella prima è raccontato un passato che guarda al futuro, che si
proietta continuamente in avanti, che spera in quello che verrà, che fa del
domani la forza centripeta; la seconda è una continua implosione su quello che
è stato e che non sarà più, su quello che poteva, doveva, voleva, e che non è
stato. È il racconto di una bambina che diventa precocemente donna in un mondo
in evoluzione, ma in una casa statica, ferma a rimirare le rovine di ieri e a
voltarsi continuamente su un universo indietro. Un detto dice che voltarsi
indietro è inutile, perché si è già stati lì: eppure Romana Petri non solo si
gira a guardare in faccia il passato, ma, laddove ha buchi di memoria, lo
immagina.
Immaginare è diverso da inventare: si immaginano solo quelle
cose che si ha voglia di vivere, come le favole. Ma soprattutto non per forza
si deve immaginare tutto: si può lasciare qualcosa di non detto, un dono che si
consegna al lettore, il cui sforzo è necessitato dalla volontà autoriale.
Seguendo una voce dominante e tante voci di corollario,
Romana Petri diventa genitrice, ma anche lettrice della propria storia
famigliare: mediante un pensiero analogico e sincronico, a tratti antinomico, Le serenate del ciclone diventa un libro
necessitato e necessario, voluto di pancia e riflettuto di testa, cresciuto con
amore e guardato con il giusto distacco critico.
Il manierismo è lasciato ai caratteri dei protagonisti, ai
quali lo stile cede lo scettro: la scrittura si semplifica, si scarnifica. La
semplificazione è necessaria, quando si sceglie il primo piano: una scrittrice
(e non una narratrice) sa cosa è giusto sacrificare per far sì che un libro
funzioni. Romana Petri sacrifica sé stessa, perdendosi, ma ritrovando un’arte
degna del canone della letteratura italiana contemporanea. Per essere davvero
innovativa bisogna guardare da dove si è venuti: senza fare i conti con nulla,
semplicemente accettandosi come essere umano.
Le serenate del ciclone è una favola, ma è anche un mito:
quello di Mario Petri, invincibile e sconfitto, fragile e tenace, irrequieto e
testardo. È un uomo che diventa eroe imperfetto, ma non per questo meno degno:
è un mito eterno, che si ripeterà in ogni generazione.
È una storia che parte dall’acqua del parto e si chiude con
l’acqua della morte: l’archetipo. E dove un archetipo regna, allora la leggenda
si compie.
Ilaria Batassa