di Pierre Lemaitre
Mondadori
Traduzione italiana di Stefania Ricciardi
pp. 360
€ 15
Camille è un poliziotto alto un metro e quaranticinque, “una
pallida copia di Tolouse-Lautrec, solo meno deforme”.
Il caso che si trova ad affrontare sembra uscito da un incubo: sono
stati ritrovati i cadaveri smembrati di due donne; la testa staccata,
gli occhi bruciacchiati, i corpi martoriati. Il medico legale
confermerà con dettagli scioccanti ciò che è evidente si
dall'inizio: tortura spietata, orrore ed una follia più tremenda
della morte. Sul muro, una scritta di sangue: “Sono
tornato”.
Di fronte a questa scena del
crimine colma di nefandezze
non si tratta neanche di scoprire, come per altri delitti simili, il significato che un preciso oggetto rappresenta nella sua vita personale, perché in un certo senso, l'oggetto in sé non ha alcuna importanza. È l'insieme che conta. Arrovellarsi a cercare il significato di ogni segno non servirà a nulla. È come se cercassimo il senso di ogni frase in un'opera di Shakespeare. Così facnedo, sarebbe impossibile comprendere il Re Lear. È il senso globale che va cercato.
Un macabro indizio, un'impronta
lasciata col sangue sul muro, collega questi efferati delitti ad un
vecchio caso in cui la vittima, orrendamente ferita, era una
prostituta, come le due donne appena trovate. Nel tormento suscitato
in Camille da quelle morti, improvvisa arriva un'illuminazione: il
primo assassinio replica esattamente quello descritto nella Dalia
nera di Ellroy. Quando poi la
polizia capisce che il secondo delitto si ispira ad una scena di
American psycho, lo
schema diventa evidente: il killer ripete i crimini di romanzi noir.
Stando alle parole del dottor Crest, lo psicologo chiamato a supporto
della Omicidi, si tratta di un assassino seriale le cui azioni
violente sono un vano tentativo di trovare appagamento in una ricerca
che è invece destinata a non finire mai portando con sé sempre
nuovi delitti. Sapere della passione letteraria del killer non
aiuta però la polizia a trovarlo. Proprio quando, a causa delle
continue fughe di notizie che anticipano alla stampa i dettagli sul
caso, Camille sta per esser sollevato dall'incarico, ecco che
l'omicida si fa vivo comunicando il suo piano: “La fusione tra
l'arte e il mondo si sarebbe finalmente compiuta per merito mio”;
il complesso rituale dell'assassinio eleva le vittime dalla loro vita
meschina e le consegna alla sublime eternità dell'arte. È questo il
lucido delirio di una mente malata che sprofonda la squadra di
Camille (ed i lettori) in un inquietante abisso. Da quel momento si
instaura un dialogo tra il comandante e l'assassino, che sembra
conoscere bene il poliziotto e che lo ritiene l'unico in grado di
capire l'eleganza e la poesia delle sue opere, il ricalco degli
omicidi dei romanzi gialli. Che stia giocando o meno con la polizia,
per la quale forse recita la parte di un personaggio non meno
fittizio degli assassini di carta cui fa riferimento, il killer ha
senza dubbio un'intelligenza raffinata e la sua diventa una vera e
propria sfida.
La natura letteraria dei
crimini è anche un'occasione per Lemaitre di riflettere su un
genere, il poliziesco, considerato a lungo minore. Un pregiudizio
che, fosse ancora presente, basterebbe la qualità di Irène
a smentire clamorosamente. La
prosa è posata, riccamente descrittiva, da scrittore di razza (non a
caso l'autore ha vinto il Premio Goncourt nel 2013 con Ci rivediamo lassù), con un uso
disinvolto e alternato di passato e presente che ne rafforza lo stile
personale. Senza usare parole straordinarie o toni sopra le righe,
Lemaitre descrive i gesti e gli atteggiamenti quotidiani facendo
scattare un felice stupore per le centratura perfetta della
scrittura.
Scopriamo, tra l'altro, le ottime
letture dell'autore francese: tra i libri copiati dal “Romanziere”
(il nome che la stampa affibbia al serial killer) ce n'è anche uno
di McIlvanney, il grande autore di tartain noir recentemente
scomparso.
L'incredibile successo della letteratura poliziesca mostra in modo lampante fino a che punto l'umanità abbia bisogno di morte. E di mistero. Il mondo corre dietro a quelle immagini non perché siano indispensabili. Perché non ha altro. All'infuori delle circostanze belliche e degli inverosimili scempi gratuiti che la politica propina agli uomini per placare la loro incoercibile fama di morte, che cosa hanno se non le immagini?
Il primo capitolo della trilogia noir che Mondadori ha raccolto in un cofanetto che contiene anche l'inedito Rosy & John ci consegna personaggi già memorabili, a partire
dal protagonista, Camille, un “incompiuto a vita”
dal fare dimesso, a tratti malinconico. La sua squadra, che lo
seguirà anche nelle puntate successive, è composta da Maleval,
sciupafemmine e dissipatore, Armand, parsimonioso e
meticoloso al limite dell'ossessivo e Louis, il giovane poliziotto
aristocratico dalla cultura sterminata.
Irène (un titolo
discutibile essendo l'originale Travail soigné,
che però trova la sua giustificazione aldilà della scelta di
contrassegnare ognuno dei tre volumi con un nome proprio) è un gioco
letterario di cui cade preda anche il lettore. La seconda parte del
libro, molto più corta della prima, introduce infatti un livello
differente nello specchio di finzioni imbastite da Lemaitre, e non
diciamo di più per non togliere il gusto della lettura. Proprio come
i lettori del romanzo, anche i suoi personaggi dovranno divorare le
pagine di un libro per scoprire come va a finire la loro stessa
storia.
Nei ringraziamenti finali (chiamati Debiti contratti)
scritti per l'edizione Mondadori che raccoglie la sua trilogia Lemaitre ammette esplicitamente
l'intenzione di esordire nel noir con un romanzo che rende omaggio
a quelli che l'autore considera i suoi maestri nel genere; “quello
che sono lo devo quasi interamente alla letteratura”
dice di sé, ma Iréne
non vive solo di fantasie libresche: Lemaitre sa che la realtà è
spesso molto più prosaica della finzione e paradossalmente riesce a
dimostrare questa differenza con un romanzo nel quale anche le
situazioni più crude sono raccontate col tratto elegante della
grande letteratura.