La leggenda del trombettista bianco
di Dorothy Baker
Fazi Editore, 2015
Traduzione di Stefano Tummolini
pp. 234, € 16,00
Era inevitabile che Rick diventasse ciò che diventò. Jeff Williams gli insegnò a suonare il piano; Art Hazard lo aiutò a scegliere una tromba quand’ebbe messo insieme il denaro, e già che c’era gli insegnò anche a suonarla. Il resto fu l’effetto di un istinto che lo costringeva a lavorare senza sosta. A suonare il piano, a suonare la tromba, a fare musica.
Dell’epoca del jazz abbiamo ben precise immagini in mente:
locali sotterranei e in penombra dove il Volstead Act non sembra essere
arrivato. Giovani "flapper" con arditi tagli di capelli e lunghe collane;
orchestre di musicisti che suonano, improvvisano e cantano questi ritmi a volte
sincopati e a volte rilassanti, ma sempre così tanto in rottura con la musica
del passato.
Questi musicisti, vere e proprie rockstar del Proibizionismo, sono
tutti neri. Perchè si tratta della musica della loro gente, l’hanno tirata fuori quando
ancora raccoglievano cotone nei campi del sud e, di sicuro, un bianco non può
fare bene quanto loro. Sacrosanta opinione, almeno fino a quando sulla scena non
compare Rick Martin.
Di Rick c’è veramente poco da dire: nato in Georgia,
trasferitosi a Los Angeles con gli zii una volta rimasto orfano, marinava la
scuola per poter lavorare come raccogli birilli in una sala da bowling e per
potersi eclissare a suonare il piano in una chiesa vuota ogni volta che ne
aveva voglia. Così talentuoso da essere preso sotto l’ala dei grandi musicisti
neri come Jeff Williams e Art Hazard e da essere poi scritturato come trombettista dalle
orchestre più famose dell’epoca. Così preso dalla propria musica e dall'ossesionante ricerca di note nuove e perfette da consumarsi
con il bere e da non arrivare a toccare i trenta. Non c’è veramente niente da
dire:
Questa è la sua storia, che non può certo dirsi una tragedia; qui non si parla della caduta di un grande eroe, dal cielo alla terra: Rick Martin non arrivò mai così in alto, anche se per qualche tempo guadagnò un bel po’. Ma la sua è una storia in cui risuona la verità, insieme ad un paio di armonie nascoste.
A volte, piccole perle letterarie escono fuori dal passato. Abbiamo
infatti il piacere, con un titolo di
sicuro appeal commerciale per il pubblico nostrano, di assistere alla prima
edizione italiana di questo romanzo, uscito come esordio dell’autrice nel 1938.
Con questa biografia romanzata, esce dal marasma musicale di quegli anni, anche
la figura di Bix Beiderbecke, leggendario trombettista bianco dei Ruggenti anni Venti.
Dove c’è genio c’è sregolatezza. È una regola aurea, un
assioma talmente ben collaudato da non lasciare spazio a dubbi. Baudelarie?
Alcolista e drogato. Bukowski? Ninfomane e alcolista. Kurt Kobain? Eroinomane. Tendendo a dimenticare che il genio può risiedere anche nella
morigeratezza (un esempio su tutti: Nabokov che si vantava di non essersi mai ubriacato in vita sua ) se un musicista non conduce
una vita al limite, allora non è portatore sano di vero talento. La storia di
Rick Martin, liberamente ispirata a quella di Leon Bix Beiderbecke, sembra
inserirsi nel filone del musicista talentuoso e dannato o almeno così ci viene
presentata all’inizio.
Ci aspetteremmo un crescendo di autodistruzione in
maniera direttamente proporzionale alla crescita della sua fama. Vorremmo quasi
leggere di crisi, ricoveri, episodi di violenza. Eppure non c’è nulla di tutto
ciò. Nessun evento particolare o colpo di scena che paia giustificare una
biografia. Leggiamo solo di una passione
e un talento smisurato, solo di un
costante impegno e di una vita senza particolari colpi di testa. Leggiamo solo
dell’epoca del jazz nuda e pura. Dorothy Baker ci mostra l’America del
Proibizionismo dove Rick, in quanto bianco, rappresenta un’eccezione nel panorama
musicale. Con uno stile piuttosto
asciutto e pulito che non cede a nessun tipo di sentimentalismo smaccato, l'autrice riesce
comunque a trasmettere la passione divorante di Rick per la musica, un amore
che, sicuramente più del bere, lo porterà a consumarsi e a privare il mondo
troppo presto del suo talento.
Faceva una cosa soltanto, e quella cosa gli riempiva quasi tutto il tempo. (...) Una bella vita, semplice e votata all'unico scopo di suonare la tromba, che niente poteva scalfire.
Possiamo solo dire che si tratta della storia di una
semplice vita straordinaria, animata da ossessione e genio. E che ci porta a conoscenza di un musicista che
non rientra nel famoso “club dei 27” solo perché morto con un anno di
ritardo.