di Cormac McCarthy
Einaudi, 2006
traduzione italiana di
Igor Legati
pagine 304
disponibile anche in
formato elettronico
La forza letteraria di
Cormac McCarthy sta senza dubbio nella sua grande capacità di
trasportare idealmente il lettore nei luoghi narrati. Le descrizioni
degli ambienti che costituiscono lo scenario sullo sfondo del quale
gli attori prendono vita hanno valore assoluto per il
nitore e la potenza evocativa che le caratterizzano. Allo stesso modo
i tempi estremamente dilatati e i dialoghi, rarefatti e ridotti
all'essenziale, incastonati nella narrazione in un continuum
indissolubile, arricchiscono le storie con un realismo crudo
e impietoso, lontanissimo da ogni tentazione ottimistica o
giustificatoria.
Cavalli selvaggi,
primo romanzo della Trilogia
della Frontiera, si svolge nel
1949 nella zona di confine fra il Texas rurale e il Messico. John
Grady Cole, diciassettenne cresciuto in fretta, alla morte del nonno
lascia la fattoria di famiglia ormai messa in vendita perché in
rovina e, insieme all'amico e coetaneo Lacey Rawlins, cavalca oltre
il Rio Grande alla ricerca di una vita libera e indipendente, come
prima di lui i cowboy che migravano tra i tanti ranch sparsi nella
zona oltreconfine e si offrivano per la doma dei cavalli in modo da
garantirsi la sopravvivenza.
Insieme
al lavoro presso una grande fattoria, John Grady troverà parecchie
altre cose, compreso un amore impossibile che gli frutterà un
mucchio di guai portandolo a lottare per salvarsi la vita; ben presto
il ragazzo si renderà conto che il mondo è un posto infame dove
nulla si può ottenere senza sofferenza; anzi, molto spesso la
sofferenza è l'unica cosa che si ottiene, soprattutto se ci si trova
nel posto in cui si trova lui in quel momento. Il viaggio di John
Grady terminerà dove è cominciato solo perché il ragazzo (l'uomo,
ormai) possa rendersi conto che quello non è più un posto per lui;
con questa consapevolezza John Grady Cole lascerà nuovamente quel
luogo nel quale non ha più ragione di cercare radici che non ci
sono; il romanzo chiude sull'immagine, meravigliosamente western,
di lui che cavalca al passo verso un tramonto rosseggiante che
allunga le ombre sua e del cavallo fino a fonderle in una sola.
Oltre
che un romanzo di formazione, rivolto al percorso di crescita
del diciassettenne John Grady Cole in un mondo disumanizzato senza legge né valori, Cavalli selvaggi è un western atipico, o per
meglio dire nello stile unico di McCarthy, che allo stesso tempo
sintetizza l'eredità di Bret Harte e Zane Grey, di Hemingway e
Faulkner. Un romanzo mesto, cupo, che descrive la presa di coscienza
del ragazzo rispetto all'inevitabile avvento della modernità che
spazza via quel mondo in cui lui vorrebbe disperatamente vivere. Il
periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale è un
punto di svolta e di (ri)partenza per un'America nuova, tecnologica e
spersonalizzante, che deve fare i conti con le conseguenze
psicologiche del conflitto appena terminato (il padre del protagonista ne è la testimonianza) e che non ha più nulla di quello spirito di
frontiera perseguito da John Grady, che appare più come un soggetto
dei dipinti di Charles Russell piuttosto che un adolescente di metà
del Ventesimo secolo.
Rimpianto
e insoddisfazione sono quindi sentimenti che pervadono tutto il
romanzo, derivanti dalla fine di un'epoca e dall'impossibilità di
vivere la vita e gli affetti come si vorrebbe: il personaggio di
Alfonsa, autentico deus ex machina che in diversi sensi
determina la sorte del protagonista, è un punto di snodo nel
processo di consapevolezza e disillusione che porterà John Grady a
rimettere in discussione le sue scelte di vita, senza peraltro
trovare una soluzione.
E poi
ci sono i cavalli, forse i veri protagonisti del romanzo, simbolo di
quella vita che John Grady ricerca inutilmente, elemento di
continuità con la tradizione, con la natura e la libertà.
Cavalli selvaggi
non è, in ultima analisi, un romanzo particolarmente facile: il ritmo
volutamente rallentato, la laconicità dei dialoghi e alcune
forzature (il personaggio di Rawlins come deuteragonista un po'
troppo "da manuale", l'inverosimilità di alcune situazioni
estreme vissute da due adolescenti, una storia d'amore un po'
scontata) possono rendere a tratti difficoltoso il procedere nella
lettura. Ma insomma, come nel caso di altri mostri di genialità -
Tarantino, i Coen, Stephen King o Coetzee, per citarne solo alcuni -
McCarthy è un grande che va apprezzato così com'è, e buonanotte al
secchio.
Stefano Crivelli