The woman wanderer goes forth to seek the Land of Freedom.
“How am I to get there?” Reason answers: “here is one way, and one only. Down the banks of Labour, through the water of suffering. There is no other.”
The woman cries out: “For what do I go to this far land which no one has ever reached? Oh, I am alone! I am utterly alone!”
But soon she hears the sounds of feet, ‘a thousand times ten thousand and thousands of thousands, and they beat this way!’
“They are the feet of those who shall follow you. Lead on.”
[da Three Dreams in the Desert, Olive Schreiner, recitato nel film dalla voce fuoricampo di Maud]
La scorsa edizione dei premi Oscar è rimasta nella memoria collettiva soprattutto per aver portato l'attenzione, anche nell'elegante serata al Dolby Theatre di Los Angeles, sulla causa contro il gender pay gap, una problematica che coinvolge perfino il mondo dorato di Hollywood. Quest’anno, già durante le nomination dei candidati in gara, la polemica sembra invece concentrarsi sul sospetto di discriminazione razziale e l’accusa contro questa edizione (ma in generale tutta la lunga tradizione dei premi cinematografici) per l’esclusione di artisti di colore dalla gara, tanto da convincere molti di loro a boicottare la serata (come annunciato per esempio da Spike Lee) e farsi portavoce, insieme ad altri colleghi indignati per la situazione, di un acceso dibattito contro questi #OscarSoWhite , come l'hashtag relativo che si è diffuso in rete. Accanto al dibattito circa le nomination e l’assegnazione dei premi, che naturalmente interessa il pubblico (in cui il tormentone da moltissimi anni ormai è: sarà la volta buona per Di Caprio?), da qualche tempo quindi il Dolby Theatre è diventato anche il palcoscenico ideale per promuovere messaggi senza dubbio più interessanti rispetto ai soliti discorsi di ringraziamento e portare l'attenzione su problematiche d'attualità non solo nel mondo del cinema e dell'arte, ma più in generale della politica e del sistema sociale americano e qualche volta mondiale. L'edizione dello scorso anno per esempio va ricordata anche per il sentito discorso di denuncia da parte della vincitrice per il premio come miglior attrice non protagonista, Patricia Arquette, nei confronti della disparità di compensi tra uomini e donne nell'industria cinematografica, cui ha risposto dal pubblico una partecipe Meryl Streep.
Non posso che concordare con il desiderio di mettere in discussione leggi non scritte volte a discriminare, per qualsiasi ragione, una categoria di individui.
Questa volta però la mia personalissima polemica è contro la scelta di escludere – e proprio quest’anno – una pellicola di cui quasi tutti eravamo certi, se non della conquista di premi, quantomeno della sua considerazione tra i candidati, sia per le ottime critiche ricevute per la trattazione di un tema in questi anni di nuovo attualissimo, sia per la presenza di un cast notevole. Mi riferisco a Suffragette, il film diretto da Sarah Gavron sulla sceneggiatura (a cui anche la regista ha contribuito) di Abi Morgan; uscito in Inghilterra ad ottobre del 2015 e accolto con favore da critica e pubblico, ha contribuito non soltanto a riportare l’attenzione su un momento storico fondamentale nel lungo processo di emancipazione femminile rappresentato senza retorica e in maniera efficace, ma anche a riaccendere il dibattito intorno a questioni ancora oggi di notevole interesse, riuscendo in questo modo ad attualizzare le tematiche affrontate in un period drama per riflettere su problematiche contemporanee. Curioso che proprio in questi ultimi anni, quando finalmente la parola “femminista” ha perso la valenza negativa che troppo a lungo ne aveva caratterizzato l’uso, in un tempo in cui sono tanti i nomi, anche ad Hollywood, che intervengono direttamente contro la discriminazione di genere promuovendo campagne interessanti (come per esempio #HeforShe, voluta fortemente da Emma Watson, attivissima nell’ambito della difesa dei diritti femminili), condannando il sistema del silenzio che per molti anni ha accettato la disparità dei compensi tra donne e uomini anche nel mondo dorato del cinema, è curioso, si diceva, che proprio un film ben riuscito, con un ottimo cast e così attuale, sia stato escluso (o per meglio dire, nemmeno preso in considerazione) dalla corsa ai premi.
Questa, quindi, la mia personale – ma spero quanto più condivisibile – polemica in relazione ai prossimi Oscar. E questo soprattutto perchè Suffragette è davvero un film che vale la pena vedere e che consiglio vivamente di recuperare, ancora una volta laddove possibile in lingua originale. Un cast e una produzione prevalentemente femminile, al lavoro su una storia ambientata tra il 1912 e il 1913, nel periodo quindi di più intensa e sovvertiva attività del movimento suffragista inglese, di cui la pellicola sceglie di dare voce soprattutto a quelle donne sconosciute della working classe che con il loro sacrificio hanno contribuito a lottare per la conquista di diritti troppo a lungo negati. Ciò che va subito chiarito tuttavia è che il film della Gavron non vuole essere storia del movimento, nè biopic su una delle leader più note dell’epoca, Emmeline Pankhurts, qui interpretata dalla sempre meravigliosa Meryl Streep che si concede in un cameo di estrema bellezza; no, Suffragette è vicenda privata che si intreccia alla Storia fatta anche da quelle donne senza nome che sono scese nelle strade, ispirate da leader come la Pankhurts e da queste incitate a protestare con ogni mezzo al grido di “Vote for Women!”.
E ad esclusione della Pankhurts, del primo ministro Lloyd George e di Emily Davison, tutti gli altri sono personaggi fittizi, seppur in certi casi con qualche riferimento ad attiviste realmente esistite come la Mrs Ellyn interpretata da Helena Bonham Carter. Donne forse non propriamente reali, ma senza dubbio verosimili le loro storie qui raccontate, che parlano di sacrificio, lavoro durissimo, abusi, ideali e coraggio. Cuore del film la ventiquattrenne Maud Watts, interpretata da un'intensa Carey Mulligan che si conferma dotata di raffinato talento dopo le già interessanti prove recitative in pellicole come An Education, Drive e Far from the madding crowd solo per citarne alcune (mentre, personalmente non mi aveva del tutto convinta nel ruolo di Daisy Buchanan): la giovane protagonista della storia è una donna della classe operaia, lavandaia come lo era stata sua madre prima di lei, sposata ad un uomo che lavora nella stessa impresa e con un bambino piccolo con qualche problema di salute. Quella di Maud è la storia, all'inizio, di una vita simile a tante altre nella Londra di inizio Novecento, fatta di lavoro massacrante, abusi da subire in silenzio che lasciano un segno indelebile, nascosto ma più doloroso delle cicatrici da bruciatura che si corre il rischio di procurarsi stirando.
La stessa vita che sarebbe toccata ad una figlia femmina, se Maud e Sonny (Ben Wishaw, visto per esempio in Bright Star e The Hollow Crown) non avessero avuto un maschio. Ma quella di Maud è, invece, una vita destinata a cambiare, anche se non senza sofferenza. Durante una consegna in Bond Street, dopo una lunga giornata di lavoro, la giovane, per un attimo sognante di fronte ad una vetrina di eleganti abiti da bambina che non potrebbe mai permettersi, resta coinvolta suo malgrado dall'improvviso attacco di alcune donne che lanciano sassi contro le vetrine gridando "Vote for Women!" e creando in breve il caos. Lievemente ferita, Maud riesce comunque a tornare a casa e, la mattina dopo, di nuovo al suo posto in lavanderia, non rivela a nessuno di aver riconosciuto tra le suffragette la nuova operaia, Violet. Spinta dalla compagna o da un istinto che non può ancora a lungo controllare, Maud inizia quindi a frequentare il gruppo locale di suffragette, riunite nel retro della farmacia gestita da Edith Ellyn (un'eccellente Bonham Carter, perfetta in questo ruolo) e dal marito, una ribelle «educated and without scruples. Which makes her particularly dangerous».
Donna istruita e indipendente, sostenuta dal consorte, Edith è un "soldato", come le piace definirsi, che crede fermamente nella causa promossa dalla Pankhurts nel nome della quale è più volte finita in prigione, derisa e giudicata dai vicini, ma sempre sostenuta dal marito, lui stesso imprigionato in diverse occasioni per favoreggiamento. Un gruppo molto eterogeneo di donne, diverse per estrazione sociale, possibilità ed istruzione, unite però da un sentire comune, certe che la loro causa non possa più a lungo essere ignorata. Quando finalmente hanno la possibilità di parlare di fronte al Parlamento della questione del diritto al voto e della reale condizione delle donne lavoratrici, Maud inaspettatamente è spinta a prendere il posto di Violet – il volto tumefatto dall’ultima violenza subita dal marito – per rivolgersi a quegli uomini e mostrare loro uno spiraglio delle vite di tante donne come lei, tra fatica e soprusi che non possono essere denunciati.
We don't want to be law breakers. We want to be lawmaker. We have been left with no alternative. I incite rebellion! [Emmeline Pankhurts]
Ma alla scoperta che, ancora una volta, la richiesta di suffragio femminile è stata ignorata e le promesse di nuovo infrante, le donne radunate fuori da Westminster iniziano a protestare a gran voce: allo scopo di disperdere la folla, la polizia interviene duramente e la situazione presto precipita. Picchiate ferocemente di fronte agli uomini che detengono il potere e che non fanno nulla per fermare la violenza, molte di loro, tra cui Maud e le compagne, vengono portate in prigione, interrogate e trattate molto duramente. Nonostante le difficoltà, la sofferenza per il dolore causato alla propria famiglia e la paura, Maud non riesce più ad ignorare l’istinto che la chiama a ribellarsi contro un sistema ingiusto, dominato dalla leggi degli uomini che non riconoscono nessun diritto ad una donna.
If you want me to respect the law, make the law respectable.
È una mutazione graduale, raccontata sullo schermo con grande efficacia dall’interpretazione della Mulligan, che fa della sua Maud un’eroina indimenticabile sempre più consapevole che il ruolo di moglie e madre devota non è più abbastanza, che è il momento per le donne di conquistare dignità e diritti troppo a lungo negati. Di fronte all’ennesimo sopruso, questa volta perpetuato ai danni di quella che è soltanto una bambina, come lo era stata lei stessa, tanti anni prima nello stesso luogo, non è più possibile sopportare in silenzio e, se l’unico modo per far sentire la propria voce è mediante la disobbedienza civile, Maud e le altre suffragette non si fermeranno finché lo scopo non sarà raggiunto, sacrificando moltissimo nel nome degli ideali. Ed è proprio la sofferenza privata, il dubbio, la paura, di una donna comune che ha partecipato a qualcosa di straordinario, che l’intenso film della Gavron sceglie di raccontare. Ispirate dalle parole della Pankhurts che sfida la legge mostrandosi brevemente di fronte a quelle donne coraggiosamente radunate per ascoltarla, imprigionate, picchiate, nutrite a forza dopo lo sciopero della fame, allontanate dai mariti e separate per sempre dai propri figli, Maud e le sue compagne pagano sulla loro pelle il sacrificio di essere delle ribelli.
Maud Watts: We break windows, we burn things, because war is the only language men listen to. Cause you’ve beaten us and betrayed us and there’s nothing else left.
Inspector Arthur Steed: There’s nothing left but to stop you.
Maud Watts: What are you gonna do? Lock us all up? We’re in every home, we’re half the human race, you can’t stop us all.
Inspector Arthur Steed: You might lose your life before this is over.
Maud Watts: We will win.
Ma meglio essere ribelli piuttosto che schiave e, se la disobbedienza civile, la violenza, sono gli unici mezzi che hanno per combattere le loro battaglie, non si fermeranno di fronte a nulla pur di essere ascoltate.
Fatevi un favore, guardate questo film, ma soprattutto indignatevi e lasciatevi ispirare. Ci sono ancora battaglie che devono essere combattute, con mezzi più giusti, certo, ma non dobbiamo smettere di far sentire la nostra voce.
P.S. Intorno alla citazione "I'd rather be a rebel than a slave", tratta da un discorso della Pankhurts, non sono mancate le poleliche da parte della comunità afroamericana per il riferimento alla schiavitù. Regista e sceneggiatrice, ma anche il cast del film, sono intervenuti per sottolineare l'intento tutt'altro che discriminante delle parole dell'attivista.
P.P.S. Stando a quanto dichiarato dalla regista nell'ambito di alcune interviste, è stato grazie a Carey Mulligan che il testo della scrittrice e femminista Olive Schreiner è stato inserito nel film. Schreiner, scrittrice ed intellettuale dimenticata dalla critica letteraria non anglosassone, è l'autrice di Story of an African Farm, considerato il primo romanzo della New Woman Fiction, ma anche di bellissime short stories che hanno influenzato la produzione letteraria inglese di fin de siècle.