È la primavera del 1979, e Roland Barthes (di cui potete leggere un altro Pillole di autore: leggi qui) scrive questo piccolo saggio, pochi mesi prima di morire. Sul retro di copertina della bella edizione Einaudi viene definito il suo “testo più penetrante”. Il testo entra in profondità e chi conosce il Barthes di Critica e verità troverà un altro Barthes, qui.
Prima
osservazione di stile: egli stesso chiama questo saggio una “nota
sulla fotografia”, e in effetti si tratta di un insieme di
annotazioni. Immaginate un Barthes sessantacinquenne che sfoglia
album zeppi di foto-ricordo e che, un po' per carattere, un po' per
vocazione professionale, voglia scriverne un libro, fare un'analisi
del medium fotografia,
all'epoca forse più in uso che oggi. Un Barthes che pian piano, nel
giro di qualche mese, giorno dopo giorno annota su un taccuino
riflessioni sparse, di carattere strettamente personale: questo è
“La camera chiara”.
“Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell'ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre mi dissi: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l'Imperatore». (…) Il mio interesse per la Fotografia assunse così una coloritura culturale. (…) Nei confronti della Fotografia, ero colto da un desiderio «ontologico»: volevo a ogni costo sapere cos'era «in sé», attraverso quale caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle immagini”.
Questo
il suo obiettivo, che non porterà a termine, almeno non con una
ricerca “scientifica”. La fotografia infatti, secondo l'autore, è
“attaccata al
suo referente, contingenza pura”,
perciò farne astrazione, parlare della fotografia in generale è
quasi impossibile, e non valgono a nulla le classificazioni povere e
vuote che si prova a fare.
“Mi dissi allora che questo disordine e questo dilemma, messi in luce dal desiderio di scrivere sulla Fotografia, riflettevano bene uno stato di disagio che mi era noto da sempre: quello di essere un soggetto sballottato fra due linguaggi, uno espressivo, l'altro critico; e in seno a quest'ultimo, ero sballottato fra vari discorsi: quelli della sociologa, della semiologia e della psicoanalisi – solo che, attraverso l'insoddisfazione che in ultima istanza provavo nei confronti degli uni e degli altri, io attestavo dell'unica cosa sicura che vi era in me (per quanto ingenua fosse): la disperata resistenza verso ogni sistema riduttivo”.
Seconda
considerazione: constatata l'impossibilità di procedere in
un'analisi sociologica della fotografia, Barthes prende la sua
decisione: “di
fronte alla Fotografia voglio essere selvaggio”,
decide di basare la sua indagine su un semplice e primitivo fattore
di gusto: mi
piace/non mi piace. Però
al Barthes critico questo non è sufficiente.
“Ma giustappunto: io ho sempre avuto voglia di argomentare i miei umori; non già per giustificarli; e ancor meno per riempire con la mia individualità la scena del testo; ma, al contrario, per offrire, per porgere quest'individualità a una scienza del soggetto”.
Barthes
fa quindi un passo oltre, cerca di capire cosa ci stia alla base del
mi piace/non mi
piace
e nota che alcune fotografie gli passano del tutto inosservate:
possono essere interessanti, ma nulla di più. Altre invece fanno
accadere qualcosa in lui, un movimento inaspettato fa sì che gli
restino impresse nella memoria. Chiama questi due aspetti con due
nomi latini: studium
e
punctum.
“È attraverso lo studium che io m'interesso a molte fotografie, sia che le recepisca come testimonianze politiche, sia che le gusti come buoni quadri storici; (…) il secondo elemento viene a infrangere lo studium. Questa volta, non sono io che vado in cerca di lui, ma è lui che, partendo dalla scena, come una freccia mi trafigge”.
Terza
considerazione: due elementi, lo studium,
che
afferisce a tutta la componente intenzionale e culturale della
fotografia, e il punctum,
che
invece è totalmente irrazionale e non riducibile a qualsiasi tipo di
categoria, personale e intimo. Il fotografo sa cosa sta fotografando,
lo “mette in scena”, sia che voglia infromare o stupire, ma è
pur sempre studium.
È
ciò che il fotografo non sa di ritrarre che “fa
fare tilt”,
il punctum.
“Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell'impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa ha fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione (...)”.
Si può leggere un Barthes
diverso, meno attaccato alla pretesa di fare critica e di studiare la
fotografia in sé, ma un Barthes che non ha paura di aprirsi, di dare
un'immagine più intima del suo lavoro, di scrutare quel medium
bizzarro che tanto lo
affascinava.
(Testo di riferimento: Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003)
(Testo di riferimento: Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003)
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