Le ragazze sono partite
di Giacomo Mameli
Postfazione di Martina Giuffrè
Cuec, 2015
pp. 131
Euro 15,00
Pietrina sta per partire. Clelia vorrebbe tanto. Maretta è partita, ha fatto “carriera”, e dopo anni è ritornata in paese. Erminia è via già da un po’. Nilva, invece, andrà ancora più lontano delle altre. L’obiettivo, però, a Roma o a Milano come in Svizzera, sarà sempre lo stesso: il lavoro. Perché a casa ci sono, sì, gli affetti e le abitudini rassicuranti della vita di provincia, ma manca la cosa più importante per dare un senso alla propria esistenza, ovvero la possibilità di guadagnare quel tanto che basta per rendersi autonome e indipendenti, e magari aiutare anche la famiglia. Potrebbero essere storie di oggi: storie di emigrazione femminile dettate dal bisogno, dall’indigenza, quando non dalla mera disperazione. Sono semplicemente storie di sempre. E se è vero che il desiderio di felicità e benessere alberga spontaneamente nell’animo umano, questa aspirazione aveva fatto il nido anche nella mente e nel cuore di tutte quelle donne sarde, spesso poco più che ragazzine, che nei durissimi anni intorno al secondo dopoguerra decidevano di mettere le loro poche cose in una federa bianca e di andare, letteralmente, a servire in casa d’altri. Cameriere. Badanti. Governanti. Fantesche. Cuoche. In una parola – o meglio nella sua variante foghesina, ovvero nel dialetto di Perdasdefogu, luogo d’origine delle emigranti di cui Giacomo Mameli racconta in Le ragazze sono partite (Cuec, 2015) – seraccas. Serve, appunto. Né più, né meno.
di Giacomo Mameli
Postfazione di Martina Giuffrè
Cuec, 2015
pp. 131
Euro 15,00
«Voglio essere serva come te,
anch’io mangiata e dormita nella casa del mio padrone continentale».
Pietrina sta per partire. Clelia vorrebbe tanto. Maretta è partita, ha fatto “carriera”, e dopo anni è ritornata in paese. Erminia è via già da un po’. Nilva, invece, andrà ancora più lontano delle altre. L’obiettivo, però, a Roma o a Milano come in Svizzera, sarà sempre lo stesso: il lavoro. Perché a casa ci sono, sì, gli affetti e le abitudini rassicuranti della vita di provincia, ma manca la cosa più importante per dare un senso alla propria esistenza, ovvero la possibilità di guadagnare quel tanto che basta per rendersi autonome e indipendenti, e magari aiutare anche la famiglia. Potrebbero essere storie di oggi: storie di emigrazione femminile dettate dal bisogno, dall’indigenza, quando non dalla mera disperazione. Sono semplicemente storie di sempre. E se è vero che il desiderio di felicità e benessere alberga spontaneamente nell’animo umano, questa aspirazione aveva fatto il nido anche nella mente e nel cuore di tutte quelle donne sarde, spesso poco più che ragazzine, che nei durissimi anni intorno al secondo dopoguerra decidevano di mettere le loro poche cose in una federa bianca e di andare, letteralmente, a servire in casa d’altri. Cameriere. Badanti. Governanti. Fantesche. Cuoche. In una parola – o meglio nella sua variante foghesina, ovvero nel dialetto di Perdasdefogu, luogo d’origine delle emigranti di cui Giacomo Mameli racconta in Le ragazze sono partite (Cuec, 2015) – seraccas. Serve, appunto. Né più, né meno.
Se ne andavano così, sguarnite a dir poco: con «mutande, niente» e «calze, nulla». Prima di partire non avevano mai avuto un reggipetto, e le stesse scarpe erano un lusso rarissimo. Alla fine del lungo viaggio – che assumeva i tratti del rito iniziatico per fanciulle che conoscevano i motori e il mare solo per sentito dire, e che in una manciata di ore passavano dalla corriera al treno, dalla nave al tram – la vera avventura doveva ancora iniziare. C’erano le mansioni casalinghe da svolgere, ovvio: bene e di buona lena. Ma c’era anche l’apparecchio telefonico nel quale – non a cui – parlare. C’era la stanza da bagno (personale, addirittura!) con tutti i sanitari. C’era il gelato, assaggiato per la prima volta nella pasticceria di quartiere. C’era, talvolta, una divisa, oppure la fortuna di un piccolo guardaroba. Di un rossetto. Di un profumo. Tutte cose nuove e moderne, lontane anni luce dalla quotidianità agropastorale di una Sardegna ancora fortemente arretrata e depressa: un mondo a parte, un altrove arcaico. C’era, ovviamente, l’altra faccia della medaglia. C’erano le mani lunghe del capofamiglia o di uno dei suoi figli maschi; c’era lo strazio perpetuo e insinuante della nostalgia; persino l’acqua del rubinetto, così comoda, poteva rivelarsi triste nella sua efficienza, e soprattutto non era mai limpida e fresca come quella della sorgente, sempre allegra e tanto cara alla memoria. Su tutto, però, vinceva la certezza dello stipendio a fine mese: una parte per sé, il resto spedito ai propri cari. E per rinfrancare lo spirito bastava aspettare la domenica, quando alla Stazione Termini tutte le badanti sarde in libera uscita andavano a fare quattro passi.
Giacomo Mameli racconta tutto questo in un volumetto che si pone al crocevia tra la cronaca e il saggio storico, tra il racconto tout court e l’affresco corale. Le testimonianze delle emigranti, raccolte e rielaborate dallo scrittore e giornalista in una prosa non aneddotica e priva di paternalismi, rivivono in ventiquattro capitoletti, in cui le singole storie si intrecciano e si sovrappongono, tra copioni comuni e picchi di eccezionalità: come nel caso di Maretta, che servirà in casa di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano; oppure di Delia, che per Tullio Kezich sarà baby-sitter ma imparerà anche a scrivere, divenendone dattilografa e tuttofare; e ancora di Chichedda, che a seguito di Valerio, il figlioletto dei suoi padroni, piccolo protagonista del film Deserto rosso, si ritroverà a tu per tu con Monica Vitti.
Le ragazze sono partite, tuttavia, non è soltanto uno spaccato di storia novecentesca sarda ancora poco conosciuta, puntellato qua e là di agrodolci amarcord. Il libro di Mameli – e questo è il suo valore maggiore, che in qualche modo ne impone la lettura – è un testo universale, oltre che di un’attualità dolorosa e palmare: sia quando ci pone, giocoforza, di fronte allo specchio contemporaneo della disoccupazione (che non conosce genere); sia quando ci porta a guardare con occhi nuovi, più grati e più clementi, la realtà di molta immigrazione contemporanea, specialmente quella femminile proveniente dall’Est Europa (ma non solo), arrivata in Italia (ma non solo) proprio alla ricerca di un ruolo da domestica o da badante – come del resto appare chiaro, quasi per un fatidico giro di ruota, nell’ultimo capitolo, Pietrina di Foghesu e Vera di Kiev, in cui la cameriera di un tempo, ormai anziana, si fa assistere di buon grado (e come lei tante altre) da una giovane ucraina. Le ragazze sono partite, nella sua assenza totale di retorica, riesce addirittura a scuotere e a spronare, costellato com’è di storie di successo, di emancipazione, di evoluzione personale e di gioia di vivere pur nello sradicamento totale, definitivo o temporaneo. E se questo accade, molto banalmente, è solo perché, oggi come allora, «se c’è il lavoro, dovunque tu sia, il malumore ti passa e il sorriso c’è ogni giorno».
Cecilia Mariani
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