Sempre meglio che lavorare, uscito a gennaio 2016 al cinema -protagonisti Luca Vecchi, Matteo Corradini, Luigi Di Capua (aka The Pills), alla regia il solo Luca Vecchi - è un film sulla nostalgia
del futuro. Il paradigma è espresso dal paradosso della cicorietta:
quella cosa che quando tua madre te la faceva da piccolo, ripassata in padella,
ti faceva schifo. Eppure adesso te ne ricordi come se non avessi mai mangiato
nulla di più buono.
«Ognuno nella vita è alla ricerca della propria cicorietta». Potremmo trovare un senso filosofico alla traduzione filmica
delle ansie di tre (pre)trentenni sul futuro e sul passato: ma non renderemmo
giustizia all’animo scanzonato dei The Pills che non vogliono farci una lunga pippa sul problema
dei giovani d’oggi ma semplicemente cazzeggiare (bene) sul tema. In un film che è praticamente una macropuntata delle loro
scenette pensate per il web, si riversa l’universo del trio romano che pecca forse di
una presa un po’ minore su chi non ha mai visto qualcosa di quello che hanno
fatto e/o non condivide in qualche modo il loro immaginario.
Un immaginario fatto di citazioni cinematografiche alte e
basse, da Fellini a Tarantino a Muccino, con il nume tutelare di quella
gioventù incerta raccontata nei primi film di Nanni Moretti; di musica indie,
tra i Thegiornalisti, I cani e Calcutta che non solo firmano la colonna sonora
ma talvolta costituiscono con brani delle loro canzoni veri e propri pezzi di
dialoghi («e non è avere vent’anni, non è avere gli esami, fidati è qualcosa in
più», dice parafrasando Come Vera Nabokov de I cani il papà in procinto di partire per Berlino a un incredulo Matteo);
di serie tv (qualunque appassionato di Breaking bad avrà di certo riconosciuto
il capo dei bangla). Sullo sfondo di una Roma (sud) che rende atteggiamenti e
linguaggio più ruspanti, immediati, spontanei. Diciamolo, più simpatici.
Ma i virtuosismi citazionisti continui sono concessi
soltanto nell'ottica della parodia, del pastiche (non so se me la sento di
scomodare la definizione di “postmoderno”), del divertimento di tre ragazzi
cresciuti insieme nell’arco cultural-sociologico che va da Twin Peaks a Un
giorno in pretura, condividendo passioni e rotture di palle, udite udite, un
po’ come tutti noi. Ma chi vedendo geniali sketch del calibro di La tipa wild,
The game (A love story), Bagno Okkupato, Le colline hanno le Hogan non si è
chiesto “ma perché non c’abbiamo pensato pure noi?”.
E la forza dei The Pills eccola qua: la trama sarà forse
esile, tre amici che hanno giurato di non lavorare mai («una vita in cui
doversi svegliare alle 7.30 non è degna di essere vissuta») ma improvvisamente
uno di loro cade nel tunnel, come fosse droga, per colpa di una donna; saranno
un po’ impacciati (imPacciani!) davanti alla telecamera, ma Sempre meglio che
lavorare è un film che vuole essere comico senza essere snob ma neanche da-italiano-medio
e che, incredibilmente in Italia, ci riesce.
La novità è che finalmente qualcuno fa ridere senza culi e
tette e vacanze di Natale, mostra tre bambini che non cantano Ritorna a
Surriento vestiti da bambolotti e non sentenziano nessuna grande verità sulla
vita, tira in causa bangla e neri senza stucchevole buonismo, mostra l’uso
delle droghe in maniera non drammatica (qualcuno ci ha visto una sorta di
rovescio parodico di Non essere cattivo, di Claudio Caligari) parla di lavoro
senza retorica e finta pietà.
E se questi tre post-vitelloni ci fanno ridere è perché in
fondo siamo un po’ come loro. Per le ansie, le paure, i sussulti quando un
ragazzino ti dà del lei, certo. Ma soprattutto perché pure noi non c’avremmo
voglia de fa’ un cazzo, e rosichiamo un botto perché loro ci sono riusciti, a
mettere la loro fottuta nullafacenza sotto contratto. E pure bene.
Giulia Marziali