La sposa
di Mauro Covacich
Bompiani, 2014
Lo chiamavano Jeeg Robot
di Gabriele Mainetti
Lucky Red (Italia, 2015)
Tor Bella Monaca, nelle
periferie degradate di Roma, è un luogo senza futuro, un luogo in cui il
destino dei residenti sembra segnato in partenza, irredento ed irredimibile. Ne
parla Mauro Covacich, nel racconto de La sposa che fin dal titolo rimanda a questo quartiere perduto. Un gruppo di
ragazzi, il protagonista e i suoi amici dai nomi evocativi (Squat, Dogo e
Cinghia), stanno tornando a casa dopo un pomeriggio passato in centro, sempre
più frustrati man mano che si affievoliscono nella loro memoria i ricordi delle
vetrine illuminate, delle ragazze vestite all’ultima moda, delle insegne
pubblicitarie che reclamizzano oggetti che loro non potranno mai permettersi.
In gola, un “bolo di dolore” che cresce, diventa malessere, rende difficile il
respiro, ottenebra il pensiero, si fa progressivamente rabbia cieca.
L’ignoranza da cui sono avvinti (a cui paiono essere condannati) impedisce loro
di dare un nome ai sentimenti, di razionalizzarli e addomesticarli.
Mentre
pensi così, ti sfilano sotto il naso i palazzi umbertini dell’Esquilino e di
Porta Maggiore. Ovviamente tu non sai che sono umbertini, i nomi però non ti
ingannano: se la tua linea ferroviaria si chiama Roma-Pantano vorrà pur dire
qualcosa. Prima, sulla metropolitana, la voce registrata annunciava Spagna,
Manzoni, Vittorio Emanuele, Barberini. Tu non sai chi erano i Barberini però il
nome suonava bene. I nomi che hai ora sulla strada sono: Tor Pignattara,
Centocelle, Torre Spaccata. Non ci vuole tanto a capire che c’è un presagio
oscuro in queste parole: può brillare la vita di qualcuno che viene da
quartieri chiamati così? (“Tor Bella Monaca”, in La Sposa, 76-77)
È da
questo che scaturisce la violenza, che non trova certo giustificazione, ma
comprensione sì, e forse anche un briciolo di compassione. In un simile
contesto, si chiede l’autore (non i protagonisti, che non riescono a slanciarsi
al di sopra della contingenza, del panorama piatto e claustrofobico in cui sono
inseriti), quale spazio è riservato alla moralità? Come si può apprendere
un’etica se nessuno si premura di comunicarti i criteri discriminanti per il
bene e per il male? Ai poco più che adolescenti di Tor Bella Monaca restano
solo modelli sbagliati e l’angoscia di un’opprimente invisibilità:
Tu
e i tuoi amici vi guardate senza dire una parola. Potreste essere degli ottimi
figuranti nei programmi pomeridiani di intrattenimento, forse addirittura dei
protagonisti, non vi manca niente. Gli ultimi soldi li avete spesi per
sbiancarvi i denti, per l’abbonamento semestrale in palestra. Se la tizia del
casting avesse telefonato, questo pomeriggio in via del Corso vi avrebbero già
riconosciuti. Invece siete qua, a Bratislava, sfocati in secondo piano,
praticamente invisibili. […] Basta questo a prendere a sprangate un essere
umano innocente? Oh, sì, basta e avanza. (p. 80)
Un’ideale
risposta a questi interrogativi si può rintracciare in un lungometraggio di
Gabriele Mainetti da poco nelle sale, Lo
chiamavano Jeeg Robot. Il cartello stradale che nelle prime scene colloca
le vicende proprio a Tor Bella Monaca suggerisce icasticamente un universo di
riferimento: ci viene detto immediatamente che i supereroi di cui parlerà il
film sono supereroi del quotidiano i quali, prima di scontrarsi con il nemico,
dovranno affrontare ben altre lotte: con se stessi, con l’ambiente circostante,
con le proprie credenze errate e la propria riluttanza a cambiare. Non a caso
il protagonista, interpretato da un intenso e sofferente Claudio Santamaria, è
un piccolo criminale senza grandi aspettative. La sua metamorfosi avviene
casualmente, in modo anch’esso degradato: è l’immersione involontaria in un
barile di rifiuti radioattivi nelle acque limacciose del Tevere a trasformarlo,
dopo atroci sofferenze. La forza sovrumana che egli si trova ad avere pare
quasi un accidente, che non richiede particolari riflessioni o interrogativi, e
diventa piuttosto un’occasione per delinquere meglio, per sprofondare più a
fondo nel degrado dell’ambiente di provenienza.
È
l’incontro con una ragazza bella e fragile, mentalmente disturbata, a cambiare
orizzonti e prospettive. Alessia (Ilenia Pastorelli) ha sublimato i propri
traumi nella fantasia e attraverso questo filtro distorto rilegge gli eventi:
il mondo fantastico che ha costruito e in cui si è rifugiata prosegue senza
soluzione di continuità in quello reale. Enzo rappresenta ai suoi occhi l’eroe
invincibile destinato a salvare l’umanità tutta, e il suo sguardo è
performativo, incide sulla sostanza delle cose e le cambia fattivamente.
L’innocenza di questa giovane donna e la vitalità disarmante del suo sorriso
hanno il potere di produrre un mutamento maggiore di quello meramente fisico
già subìto: risvegliano la coscienza, suggeriscono nuove possibilità. Alessia
diventa inconsapevolmente simbolo: è la purezza che deve essere difesa dalla
barbarie, ed Enzo si trova a farlo senza quasi avvedersene. La sua conversione
dal male al bene è progressiva e altalenante, continuamente osteggiata da lui
stesso, supereroe renitente e svogliato. Nel frattempo, però, si aggiornano i
modelli a cui ispirarsi: i dvd pornografici che tappezzavano il pavimento del
suo appartamento sporco e vuoto vengono sostituiti dalla collezione completa di
Jeeg robot, uomo d’acciaio; la
ragazza inizia a chiamarlo col nome dell’eroe, Hiroshi Shiba, e nel corso del
film Enzo abdicherà alla propria identità per assumere quella che gli è stata
fiduciosamente attribuita.
È solo
a questo punto, non un attimo prima, che l’eroe è pronto per affrontare definitivamente
l’antagonista. Lo spettatore è andato conoscendolo dall’inizio del film e trema
ad ogni sua apparizione: il regista e lo sceneggiatore sono riusciti nella
missione non banale di costruire un super-cattivo che spaventa veramente, nella
sua delirante ed irrazionale follia. I contrasti che caratterizzano il
personaggio interpretato da Luca Marinelli, appassionato di musica degli anni
‘80 ed ex-comparsa ormai dimenticata di Buona Domenica, rendono ancora più
agghiaccianti le sue esplosioni di furia omicida. Non c’è in fondo molta
differenza tra il piccolo boss delle periferie, Zingaro, e il giovane descritto
da Mauro Covacich: entrambi vivono all’ombra delle ambizioni insoddisfatte, di
un ambiente televisivo che li ha illusi e ferocemente delusi, entrambi sognano
un riscatto finale all’insegna della popolarità e dello spettacolo; entrambi,
infine, ricercano la via e la supremazia nella violenza arbitraria.
Per
Hiroshi, eroe che ha riscoperto la moralità nella bellezza e nella giustizia –
non quella imposta dall’esterno, ma quella deliberata internamente, in piena
coscienza –, Zingaro rappresenta la nemesi da sconfiggere. Il confronto finale
ed epico tra i due, però, assume ancora una volta una valenza trasversale, è
ancora una volta metafora di una lotta primariamente interiore. Soltanto vincendo
il nemico e salvando il mondo, infatti, un supereroe può dirsi davvero tale,
rivendicare il proprio ruolo all’interno della società. La battaglia che
Enzo/Hiroshi combatte è allora l’ultima tappa di un percorso alla riscoperta di
sé che lo porta (nell’unica maniera possibile) finalmente al di fuori di Tor
Bella Monaca, sulle gradinate dello Stadio Olimpico e sulle mura del Colosseo,
nel cuore pulsante della città.
Carolina Pernigo