Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: “Non fate malagrazie!”
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: “Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!”
Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.
Diceva: “Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!
[…] Ogni atto o gesto nostro che stimava inappropriato, veniva definito da lui «una negrigura». […] La gamma delle negrigure era grande. Chiamava «una negrigura» portare, nelle gite in montagna, scarpette da città; attaccar discorso, in treno o per strada, con un compagno di viaggio o con un passante; conversare dalla finestra con i vicini di cassa; levarsi le scarpe in salotto, e scaldarsi i piedi alla bocca del calorifero; lamentarsi, nelle gite in montagna, per sete, stanchezza, o sbucciature ai piedi; portare, nelle gite, pietanze cotte e unte, tovaglioli per pulirsi le dita.
(da Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1999, pp. 3-4)
Quando ho incontrato il papà di Lessico famigliare per la prima volta, ho provato fin dalle prime pagine un enorme fastidio che si insinuava prepotente nel suo lessico, tra le parole che ai nostri giorni vediamo "politicamente scorrette". Era il suo tono autoritario, o forse la pretesa di sapere sempre cosa dire e come etichettare le cose e la gente, a darmi così fastidio? O erano dei punti freudianamente in comune con chi sedeva al capotavola di casa? Avevo sì e no 16 anni, a quella prima lettura, e nelle mie vene il desiderio di ribellione accecava tutte le belle ambizioni linguistiche della Ginzburg. Non le vedevo. Per me il papà di Lessico famigliare era un protagonista scomodo, che si impone senza mai chiedere permesso, strabordante rispetto alle richieste e ai bisogni dei figli. A Natalia, poi, non restava che il ruolo di una narratrice timida, che quasi recalcitra a dire "io" e si schiaccia nel ruolo di testimone.
Poi qualcosa è cambiato: una rilettura nel 2007, gli occhi di un'insegnante (bravissima) che sui banchi dell'università ci ha fatto numerare (ebbene sì!) tutte le scene e i paragrafi del libro, per prepararci a quel che poi ci avrebbe fatto incontrare: un grande libro, che filtrato dalla maturità aveva tutto un altro sapore. C'erano sfumature nel carattere, incertezze in quel padre burbero che non avevo saputo vedere. Allora le sue parole si sono rivelate come armature contro la possibilità, qui e là, di sbagliare, ma anche armi per non permettere a nessuno di avvicinarsi troppo. Inutile dire che lo sguardo verso quel e questo capotavola, col tempo, ha cambiato intensità e pronuncia le parole: "Buona festa del papà" con un'altra, più indulgente, complicità.