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di Ryan Gattis
Guanda, 2016
Traduzione di Katia Bagnoli
pp. 410
€ 22 (cartaceo)
È come se qualcuno avesse impacchettato quella roba che per tutta la vita ho visto succedere in Libano, l'avesse infilata dentro a una scatola, ce l'avesse mandata qui e avessi aperto quel caos nel giardino di casa mia. Roba da Striscia di Gaza. La neta, amici.
E tutta questa situazione mi dice quello che dice a ogni altro zuccone di questa città che ha mai fatto un brutto pensiero: è il tuo giorno fortunato, fratello. Felicidades, hai fatto bingo.
Vai e scatenati, dice. Vai e prenditi tutto quello che puoi, dice. Se sei abbastanza duro, se sei abbastanza forte, vai là fuori e prenditelo. Una notte infernale in pieno giorno.
(p. 89)
Una vera e propria catastrofe si abbatte su Los Angeles nel 1992, con le caterve di rivolte, uccisioni, incendi che mettono a ferro e fuoco la città dopo uno dei processi più drammaticamente celebri d'America. Quattro poliziotti, coinvolti nel pestaggio di un taxista di colore, vengono assolti: la rivolta è immediata, e ha una portata a dir poco eversiva. Bastano le poche immagini dei filmati qui sotto per scatenare la fantasia su quanto potesse avvenire collateralmente, nei sobborghi, dove la polizia è letteralmente schiacciata di numero dai membri delle gang.
Allora non ci si meraviglia che Ryan Gattis, scrittore emergente decisamente promettente, ambienti l'epopea di Giorni di fuoco in queste sei giornate senza precedenti. Meraviglia di più con quanto coraggio, capacità strutturale e fantasia Gattis trasformi Los Angeles e il quartiere di South Central in un enorme palcoscenico: qui, le fiamme illuminano siringhe usate, corpi malmenati; bruciano il sangue di chi non ha saputo sottrarsi alle risse, ma lasciano divampare anche ricordi e vendette. Sì, perché il caos generale diventa il momento ideale per nascondere la mano rea della propria clica (ovvero gang di quartiere) e stabilire nuovi equilibri. Come? Con la sopraffazione, l'uccisione, l'estorsione e la minaccia. E per raccontare tutto questo, Gattis adotta il punto di vista più difficile da mantenere senza sporcarsi di buonismo: quello dei cosiddetti "antagonisti". Non sono i soli a prendere la parola, a salire su un vero e proprio palcoscenico quotidiano su cui tengono un a parte con il lettore, ma sono senza dubbio la maggioranza.
I loro interventi, scanditi dal passare dei giorni come in una gigantesca cronaca gestita dal basso, sono tutti personalissimi e ben riconoscibili. Una volta che si presenta il protagonista del capitolo, è facile collegarlo alla propria clica, a rapporti d'odio o di fratellanza con questo o quel personaggio incontrato in precedenza. E poi si parte, con tutta l'azione, le riflessioni e il vissuto di chi è lì a raccontare le sue ore di caos.
La scelta, dunque, è quella di una coralità piena di individui: un paradosso? Forse, ma è proprio in questo che Gattis si conferma eversivo come i suoi personaggi, personalizzandoli perfettamente anche grazie a un perfetto uso linguistico. Come ogni personaggio ha le sue abitudini, i tic, così ha proverbi, intercalari e un uso più o meno personale di improperi e parole-chiave, spesso con prestiti ispanici e un gergo malavitoso, il tutto ben mantenuto anche nella traduzione italiana.
All'interno di questa coralità, c'è la famosa goccia che fa traboccare il vaso anche nei sobborghi: Ernesto, pur non facendo parte di alcuna clica e anzi lottando per tirarne fuori fratelli e conoscenti, viene ucciso di percosse e pugnalate, come messaggio da portare alla sua famiglia da parte di una banda avversaria. Sono solo le prime pagine, eppure si capisce già che sta per partire uno dei romanzi più riusciti degli ultimi anni: sfido a trovare una migliore descrizione di agonia fatta proprio da parte dell'agonizzante! Sono paragrafi duri da digerire, e il lettore sente subito che il romanzo si imporrà con la violenza di una sinossi decisa e una lingua altrettanto netta. Ed è proprio quando lo capisce, che sta già implicitamente accettando il patto: quello di farsi raccontare la storia contemporanea da un punto di vista diverso, dove le pistole scrivono episodi distorti da stupefacenti per far tacere il dolore, o perlomeno, per non sentire.
I lettori del primo Welsh ameranno con assoluta certezza questo romanzo; vi troveranno più storia e meno fiction, più punti di vista ancora e maggiore aggressione verbale. Un libro da leggere con una birra accanto e un po' di tempo, per non interrompere questa cronaca soggettiva, allucinata e allucinante.
GMGhioni