India. E mi fissi con gli occhi di una capara
di Giorgio Serafino
Terra&Asfalto, 2015
pp.153
15 €
India di Giorgio Serafino non è un libro di viaggio sull'India. O meglio non è il classico libro di viaggio sull'India. Perché nel resoconto di viaggio di Serafino non c'è spazio per la veduta da cartolina, la riflessione un po' scontata sulla ridondante spiritualità di quella terra o il continuo arrovellarsi sulle colpe dell'uomo bianco. No, niente di tutto questo: India è un libro di polvere, sterco di vacca e tanti colori, suoni, odori, sorrisi e piedi di un mondo tanto lontano da noi da sembrarci alieno. Ma in fondo non è il nostro destino di esseri umani nati da qualche parte nel Corno D'Africa, di andare erranti per la nostra bella Terra?
Qualche tempo fa ascoltavo in radio Matilde Castagna, una giovane ed importante fotografa, che raccontavo del suo ultimo viaggio sulla via della Seta. Castagna raccontava senza paura di essere stata per quasi quattro mesi nei luoghi più pericolosi e difficili sulla Terra, con una sorta di ingenuità mista a pura passione per la conoscenza ammirevole in una ragazza così giovane. E quando ho chiuso il libro di Serafino questo ricordo mi è tornato in mente. Perché Matilde Castagna era così entusiasta per quel paradiso colorato in terra e perché invece Giorgio Serafino era così negativo di fronte a quell'inferno reale e concreto, tutto brulicante, tutto verminoso, tutto pieno di muffa?
Ci ho messo un po' a capirlo e ho dovuto rileggere il secondo capitolo di India, quello intitolato Deserto. Da un capitolo che si chiama così non puoi aspettarti molto di diverso che cammelli, sabbia e sole cocente. E questo il lettore ha ma declinato in un modo assolutamente concreto, grazie alla scrittura di Serafino che, lungi dal volersi esibire quale "fine e barocco maestro della penna" riversa sulle sue pagine, quasi furiosamente, impressioni, pensieri ed idee senza alcun tipo di filtro, una specie di flusso di coscienza continuo che prosegue passo dopo passo.
E in questo capitolo, dopo, ovviamente, una traversata del deserto (nella quale si fa in tempo ad ammirare i magnifici colori dei vestiti delle donne indiane, filo rosso che unisce lo scrittore alla fotografa), si arriva al tempio di Karni Mata, conosciuto anche come "il tempio dei topi". Immaginatevi un tempio bellissimo e dalle dimensioni enormi completamente "invaso" da migliaia e migliaia di topi, che ne affollano le sale, ben pasciuti e tenuti in forma grazie alle abbondanti libagioni di cibo date dai guardiani.
La scena è quasi da film dell'orrore: stanze su stanze ricolme di topi, che ne riempiono l'aria con i loro mefitici odori. Eppure, nonostante lo scrittore non voglia rinunciare a descrivere sin nei dettagli "lo schifo" provato, ad un certo punto, dopo l'ennesimo pappone maleodorante, ecco che in una stanza più riparata un santone sta compiendo un qualche rito. L'aria è vomitevole e irrespirabile, eppure quella stilla di sacro riempie gli occhi di Serafino.
No, non si abbandona alla spiritualità, forse perché il puzzo è troppo forte o forse perché lui è troppo punk, ma intuisce il mistero, la magia che si cela dietro a quei gesti lenti e ripetuti nei secoli. Ecco l'India, una terra che, in maniera confusa, brulicante e coloratissima sembra quasi esistere prima ancora della stessa Terra. Un subcontinente che è spazio e tempo in un attimo solo.