di Francesco Targhetta
Premio Ciampi – Valige Rosse 2014
pp. 46
Mentre scrivo questa breve recensione, il
Premio Ciampi – Valigie rosse è già arrivato alla sua sesta edizione, pubblicando,
alla fine del 2015, la poetessa Azzurra D’Agostino con Quando piove ho visto le rane per la sezione italiana e per la
sezione internazionale i quattro poeti svizzeri Américo Ferrari, Dragica Rajčić,
Leta Semadeni e Mary-Laure Zoss con l’antologia Disaccordati accordi. In realtà però l’oggetto dell’articolo che
state leggendo non sarà nessuno dei due volumi appena citati. Questo perché la
nostra redazione è rimasta in ritardo di un giro, ferma all’edizione del 2014, dopo
aver recensito qui
e qui
i due volumi dell’anno precedente. Ritardo da addebitare soltanto alla
mancanza del sottoscritto; di tempo, di calma, di pace. Vogliano perdonarmi i
lettori di Critica Letteraria e gli organizzatori del premio.
Dicevamo quindi del premio 2014. Per la
sezione italiana la quinta edizione ha visto la pubblicazione di Le cose sono due di Francesco Targhetta.
Il poeta trevisano, classe 1980, si era già distinto negli anni passati per la
raccolta Fiaschi del 2009, pubblicata
da ExCogita, ma soprattutto per il romanzo in versi Perché veniamo bene nelle fotografie, uscito nel 2012 per Isbn. Entrambi
i lavori affondano piuttosto esplicitamente le radici nel bacino, purtroppo
fecondo (e la nota negativa è interamente riferita alle implicazioni
politico-sociali della questione), di un certo disagio generazionale. Lo sforzo
poetico di Targhetta è teso a rappresentare – inteso qui in senso etimologico e
quindi come “mettere in mostra” – le condizioni di vita della nostra (ed ecco
qui svelato il mistero della nota negativa) generazione, di quegli adesso
trentenni che, alla svolta del nuovo millennio, si sono trovati, per usare la definizione molto appropriata che Marco Rivello utilizza nel suo breve
libello Hatikva, “con il passato migliore e il futuro peggiore della storia”.
Sullo stesso orizzonte tematico si
colloca anche Le cose sono due.
Ancora una volta, il pregio di Francesco Targhetta è quello di non indugiare, data la vicinanza emotiva agli oggetti immortalati,
nell’autocommiserazione e nell’autocompiangimento. Il verso non agisce mai da
amuleto o da salvagente; non è via di fuga, ma bensì lente d’ingrandimento,
chiave e chiavistello. La raccolta è divisa in due sezioni (priva di titoli la
prima, impreziosita da titoli molto eloquenti e allo stesso tempo connotativi,
la seconda) intitolate, appunto, “Uno” e “Due”. Si tratta di ventitré poesie e
una breve prosa. Ciascuna inquadra i dettagli della vita quotidiana che spesso
sfuggono alla vista, nella frenesia della nostra corsa giornaliera: gli sguardi,
i fremiti, gli attimi d’indecisione, di rancore, di rimorso. Con lucido acume
Targhetta ci restituisce i nostri stessi gesti (lo so, ma purtroppo non immedesimarsi
quando sei cosi vicino ai costumi di scena è quasi impossibile), ripuliti dal
rumore bianco della routine, pensa i nostri stessi pensieri, incrocia i nostri
stessi passanti, frequenta i nostri stessi luoghi (Esce sulle dieci di sera/ a
controllare di aver chiuso il cancello,/ e lo scrolla, più volte, lo sbatte,/
con l’ombrello se piove o d’estate/ sul sole che ha appeso la luce/ ultima ai
tetti, e ti chiedi, scostando/ le tende, quale cruda forza lo spinga […] Lo
dirò al vicino una volta:/ allarmarsi non serve). Ne vengono fuori un’amarezza
e uno struggimento sottili, che non sono mai illuminati frontalmente, ma sono sempre
presi in controluce, resi palesi per contrasto e per rimozione, mediante l'allontanamento dal testo e dalla parola (Ma in sala insegnanti sempre scopri/ la prof che
rimane più del tempo/ lega i compiti con le fascette/ e sbarra con la biro i
registri./ Troverà, uscendo, le strade più sgombre,/ più duro, a casa, il pane
in cassetta).
In questo senso, parlando della poesia di
Francesco Targhetta è difficile non scivolare nell’accostamento, anche veloce,
a un certo crepuscolarismo e soprattutto a Corrado Govoni, che del nostro è
stato oggetto di tesi di dottorato. Il tono volutamente e sapientemente
dimesso, lo sguardo quasi distratto, casuale, con cui si legge la realtà, chiamano
in causa, e in un certo senso attualizzano, quel momento della tradizione
letteraria italiana. Ma con delle differenze importanti. La prima è stata già
implicitamente evidenziata dal ricorso al termine spigoloso “attualizzare”. La
tradizione viene infatti interamente spogliata da Targhetta, setacciata e poi
superata. Seguendo un po’ il celebre consiglio che John Gardner diede a Raymond
Carver, Targhetta legge i grandi poeti italiani per poi dimenticarsi di loro e
trovare una voce personale e originale. La seconda differenza consiste nel fatto
che la sobrietà della poesia, prima di opporsi all’individualismo intellettuale
e letterario, sembra fare da schermo contro il divismo imperante della nostra
società, l’egomania che contraddistingue molti coetanei del poeta.
Come sempre però, quello che conta è ciò
che rimane al fondo della letteratura; le cose e il pane, il male allo stomaco,
le paure e le domande a cui bisogna dare una risposta. Ed è qui che, a nostro
avviso, Targhetta vince la sua partita; nel dar corpo a un urlo mai consumato,
a una disperazione tenuta a distanza. Quello che viene fuori è uno spaccato
affilato e tagliente, un resoconto sagace e insieme “spietato” (Il lavoro
distrae, ma il lavoro/ non c’è, e resta allora la fame,/ spietata e pura, un
trentatré giri/ che stura il silenzio del mattino,/ mentre il giorno è gigante/
e mica lo fermi,/ sale in sordina su quei treni eterni/ lungo la pioggia delle
coste adriatiche/ finché è sera dentro le stanze […]). La poesia anima e
accende. Non trasfigura niente, non trascende, non scappa. In questa battaglia
la parola rimane lì, in prima linea, senza voltare le spalle, senza camuffarsi,
senza pararsi a festa. E che nessuno si azzardi a indietreggiare. Avere paura
non serve. Così come non serve allarmarsi.
I giorni in cui non parli con nessuno
Le cose sono due:
o arrivi a cogliere il senso di tutto
o confondi corrompi e ti ingarbugli,
e la tua voce che chiama il gatto
è quella, alla sera, di un crooner
(«eccoti i rimasugli»),
l’eco rauca e lunga
nella notte che ti riprende in scacco.