Ci sono parole
che risuonano come spie precise, tracce inequivocabili delle letture che un
autore ha fatto proprie, prima di scrivere un libro. Viene spontaneo seguire il
percorso che queste parole suggeriscono, per rintracciare motivi letterari
della letteratura e per capire da dove derivano. Per questa riflessione ho
scelto di concentrarmi solo su alcuni testi di Calasso, Nabokov, Cabrera
Infante e Buzzati.
Riferendosi
a Nabokov, Roberto Calasso scrive: «Non sarà che quella frase sopra citata sia
stata buttata lì dall’autore fra tante altre, come per decorazione? No, mi
rincresce, Signori della giuria, ma i veri scrittori non operano così». Cioè un
vero scrittore, quando ne cita un altro, sa benissimo cosa sta facendo.
Leggendo
Un amore di Buzzati, ho incontrato il
termine ninfetta. È una delle
primissime parole che l’autore usa per introdurre Laide, una bella prostituta
minorenne che diventa in fretta un’ossessione per il protagonista:
Un breve percorso in macchina, sei piani di ascensore, ed ecco già la ninfetta stava togliendosi il reggipetto, sorridendo.
La
ninfetta per eccellenza della letteratura, è Lolita. Minorenne fascinosa, Lolita
viene definita così da Nabokov, che assume questo termine per definire le
ragazzine tra i nove e i quattordici anni che hanno un incanto particolare e
una natura «che non è umana, ma di ninfa (e cioè demoniaca); e intendo
designare queste elette creature con il nome di “ninfette”». In questo modo l’autore
dichiara le qualità soprannaturali di certe bambine; e non usa questa parola
soltanto nel romanzo, ma anche in altri contesti, come ad esempio nell’intervista
al giornale The Paris Review nell’ottobre del 1967:
Le ninfette sono ragazze-bambine, non stelline e “micette del sesso”. Lolita, quando Humbert la conobbe, aveva dodici anni, non diciotto. Lei forse ricorderà che Humbert, quando Lolita compie quattordici anni, la chiama la sua “amante che invecchia”.
Nella
pagina in cui Buzzati descrive Laide per la prima volta leggiamo anche:
Guardò, cercando di misurare il piacere che ne sarebbe presto seguito. Si accorse che l’ovale del volto era bellissimo, puro, benché non avesse niente di classico.Ma soprattutto colpivano i capelli neri, lunghi, sciolti giù per le spalle. La bocca formava, muovendosi, delle graziose pieghe. Una bambina.
Da
queste righe si può dedurre che Laide ha in comune con Lolita la minore età, la
purezza dei lineamenti e il fatto di essere ninfetta,
non una ragazzina come ce ne sono tante. Viene immediatamente da chiedersi se
Buzzati avesse usato quel termine in modo casuale e ovviamente non è possibile.
Se Dino Buzzati un giorno ha deciso di scrivere del tormento per una minorenne
dal fascino particolare non può averlo fatto senza tenere in considerazione uno
dei capisaldi della letteratura, un autore che aveva già scritto
dell’ossessione amorosa di Humbert Humbert per una ninfetta, appunto: Nabokov. Quindi
possiamo concludere che quel termine non è stato messo lì a caso, in questo
senso la casualità nella letteratura probabilmente non esiste; allo stesso modo
si può ragionevolmente affermare che anche Nabokov fece un uso consapevolissimo
del termine ninfetta e su questo Roberto
Calasso ci viene incontro: nella raccolta La
follia che viene dalle ninfe ci mostra l’origine di questi riferimenti alla
mitologia greca.
«Il
primo essere a cui Apollo parlò sulla terra fu una Ninfa», recita l’incipit;
quindi Calasso spiega che Apollo cercava un posto in cui fondare il proprio
culto, quando si trovò in un «luogo intatto» come recita l’inno omerico: «Quel
luogo è un essere», precisa Calasso riportando il passo omerico. Dunque per i greci
la ninfa è un luogo puro, perché non ha subito «le “calamità” che vengono dagli
dei e dagli uomini», spiega l’autore, e per la Ninfa, di nome Telfusa, Apollo è
una minaccia. Dopo varie vicissitudini, prosegue l’autore, Apollo «elevò un
altare a se stesso» proprio sui luoghi della ninfa, «e rubò a Telfusa anche il
suo nome, facendosi chiamare Apollo Telfusio».
Calasso
riflette sui rapporti tra Apollo e le ninfe, definendoli «tortuosi, di
attrazione, persecuzione e fuga, felici soltanto una volta»; possiedono un
unico filo conduttore: «Apollo è stato il primo invasore e usurpatore di un sapere
che non gli apparteneva», dalle ninfe apprende infatti a usare la sua arma,
l’arco.
Quanto
ai luoghi intatti, certamente le ragazzine lo sono: Nabokov non manca di citare
la «purezza di quella bimba dodicenne», e pure Buzzati definisce puro il volto di Laide. L’usurpazione
della purezza di Lolita è la prerogativa di Humbert Humbert, è evidente.
Se seguiamo
ancora il filo conduttore della mitologia greca, dobbiamo tener presente che Zeus
aveva sperimentato la metamorfosi nei suoi rapporti con le ninfe, mentre nel
caso di Apollo e Dioniso la conoscenza passa attraverso la possessione, come
descrive Calasso: le ninfe possono essere portatrici di salvezza
come anche di tormento. L’autore analizza in modo preciso la parola ninfolettico, che legge in un’opera di
Plutarco e che vuol dire rapito, posseduto dalle ninfe. Era così che venivano
chiamati gli abitanti di un luogo che era la sede di un oracolo. Da qui, in un
lungo ragionamento ricco di citazioni, Calasso conclude che non si tratta di
epilessia, né di puro «delirio erotico», ma si tratta di qualcosa che ha a che
fare con uno stato di felicità, di ebbrezza «per ispirazione» di un essere
divino, in modo improvviso. La possessione di cui si parla non ha dunque nulla
a che vedere con l’accezione negativa, diavolesca che l’occultismo ottocentesco
ha in seguito tramandato fino ai nostri giorni.
Nel
libro di Nabokov si possono ritrovare tutti questi riferimenti, puntualmente:
Fa’ che torni presto, pregai rivolgendomi a un Dio in prestito, fa’ che mentre mamma è in cucina possa ripetersi la scena del sofà – ti supplico, l’adoro in un modo così orribile! No, «orribile» non è la parola giusta. L’euforia che mi pervadeva al pensiero di nuove delizie non era orribile, ma patetica. Io la definisco patetica. Patetica... perché nonostante il fuoco insaziabile del mio appetito venereo avevo ogni intenzione di proteggere, con la più fervida determinazione e preveggenza, la purezza di quella bimba dodicenne.
E poi:
Era meglio aspettare un’oretta e poi avvicinarmi di nuovo? La ninfolessia è una scienza esatta. Un vero e proprio contatto avrebbe raggiunto il suo scopo in un secondo.
Nabokov
descrive quindi minuziosamente il desiderio per una ninfetta usando proprio
termini come posseduto, felicità e inferno, che riguardano da vicino il rapporto tortuoso di cui parla
Calasso:
Devi capire che il viaggiatore incantato, posseduto da una ninfetta e a lei asservito, sta, per così dire, oltre la felicità. Nulla al mondo, infatti, dà tanta beatitudine quanto accarezzare una ninfetta. E hors concours, quella beatitudine, appartiene a un’altra classe, a un’altra categoria di sensi. Nonostante i nostri battibecchi, la sua villania, tutte le storie e le smorfie che faceva, e la volgarità, e il pericolo, e la spaventevole inanità di tutto quanto, io ero sprofondato nel mio paradiso d’elezione – un paradiso i cui cieli avevano il colore delle fiamme dell’inferno, ma pur sempre un paradiso.
Del
resto, come abbiamo visto, lo stesso Nabokov non lesina riferimenti evidenti
alla mitologia greca:
La più carina delle due ragazze (Mabel, credo), calzoncini corti, copriseno con poco da coprire, capelli luminosi – una ninfetta, per Pan! –, tornò giù di corsa accartocciando il sacchetto, e la facciata della residenza del signor Humbert e signora la nascose alla vista del Verde Capro.
Accenna
inoltre al potere delle ninfette e dei sortilegi con cui sanno ammaliare sugli
uomini:
[…] e lei, non ravvisata dalle sue compagne, posa tra loro a sua volta ignara del proprio fantastico potere.
Altrove
nel romanzo cita anche «il periglioso sortilegio delle ninfette».
È come se il motivo del fascino di questi personaggi femminili della letteratura non si possa spiegare se non con la loro natura demoniaca. Lolita a prima vista sembra una ragazzina come tante, Laide è capricciosa e volubile, insensibile e vacua; e ancora meno interessante appare Estela, la protagonista femminile del romanzo La ninfa incostante di Cabrera Infante. Il libro si apre con due citazioni, non a caso una è l’incipit del Pomeriggio di un fauno di Mallarmé: «Quelle ninfe le voglio perpetuare», come Ungaretti tradusse in forma di endecasillabo; si tratta di un componimento in cui un fauno vorrebbe che durasse per sempre quel suo sogno sulle ninfe, che però sono pura illusione; l’altra citazione che fa da esergo è il titolo di un’opera di Diderot: «Questo non è un racconto». Nella Ninfa incostante Cabrera Infante evoca il ricordo di una donna, Estela, quindi ne vuole perpetuare la memoria, come ha modo di dire chiaramente nel testo; e poi la citazione di Diderot si può riferire al fatto che non si tratta di un semplice raccontare, il suo è un vero e proprio ricordare.
Leggendo
Cabrera Infante è impossibile non pensare a quanto fosse un lettore consumato,
le sue pagine sono intrise di riferimenti, dei veri e proprio guizzi, che rendono
evidente il livello della sua cultura letteraria, cinematografica e musicale.
Introduce il personaggio di Estela con una perifrasi: «[…] appariva come una
donna molto giovane che voleva sembrare più matura, oppure una ragazza che era
appena diventata donna».
Quindi
descrive il sortilegio che fa di lei una ninfa, un essere sovrannaturale:
Lei era l’incantatrice e io l’incantato.
«Al
contrario delle favole, racconto questa storia senza la consolazione di una
morale», scrive poi, e ci fa subito ricordare che Nabokov raccomandava sempre –
a proposito di Emma Bovary, come anche della sua Lolita –, di distinguere
l’arte dalla morale. Ma c’è una frase che ha in sé tutti gli elementi più
importanti del concetto di ninfetta e che chiarisce il fatto che il titolo del
romanzo non può essere casuale:
Temo, ho sempre temuto l’incanto dei bambini. Per questo Estela mi sedusse. Lei era estranea al suo incanto così come alla morale.
Il
carattere di Estela possiede dei tratti inconsueti; è intelligente, ma ha una
voce monotona, non ha cultura né senso dell’umorismo, il più delle volte non comprende
tutti i riferimenti colti di cui sono fatte le frasi del protagonista, che è molto
affascinato da lei. L’autore descrive la loro relazione come una fuga, e la sua
attrazione per lei come un’ossessione, le parole usate da Calasso per definire
il rapporto complesso degli uomini con le ninfe da cui si sentono posseduti. Il
fascino di Estela consiste anche nella sua inconsapevole sensualità:
La sua insolenza non era una maschera, […] era proprio vera.
Non aveva la minima idea del peccato. Era come se cercando la parola sul dizionario non fosse riuscita a trovarla tra le pagine. Ma per me lei era il peccato, e in peccato scontavo la mia penitenza.
«Non fu
una sola estate di felicità ma un’estate di miseria, furia e fuoco», insiste
Cabrera Infante, e ritornano in mente le parole di Calasso a proposito della
possibilità di essere felici una sola volta, con le ninfe, in un insieme di ebbrezza
e tormento. Come ogni ninfa, Estela ha in sé la purezza, anzi, l’autore la
definisce usando ancora una volta motivi cari alla mitologia greca di cui si
diceva:
Lei, come ogni territorio inesplorato, al tempo stesso attraeva e incuteva timore. Fui io a scoprirla, ma la sua esplorazione (non ho mai potuto parlare di conquista) fu dispendiosa. Mi salvò solo il mio istinto di conservazione, che sin da quand’ero bambino è stato il mio angelo custode.
Il
protagonista del romanzo – l’autore – scopre Estela così come Apollo scopre la
Ninfa Telfusa, che era un luogo sacro e intatto. Viene da continuare a cercare
le ninfe nei testi di letteratura di tutti i tempi, con la consapevolezza – che
si fa brama di scoperta – di ritrovare esattamente le stesse qualità che questi
grandi lettori-autori, hanno attribuito alle loro eroine.
Lorena Bruno
@Lorraine_books
Nota
La
traduzione di Lolita è di Giulia Arborio Mella per l’edizione Adelphi, quella
della Ninfa incostante è di Gordiano Lupi per Sur.
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