Questi tempi fuori dal tempo
di Francesco Fagioli
Baldini & Castoldi, 2016
pp. 560
€ 20,00
Questi tempi fuori dal tempo.
Già dal titolo si capisce qual è l'ossessione che muove il libro e il suo autore Francesco Fagioli, che lo ha appena dato alle stampe per Baldini & Castoldi.
Una storia dagli ingranaggi complessi, che parte dal rapimento della giovane Veronica mentre torna a casa alle dieci di sera dopo una giornata passata con un'amica.
Al suo risveglio è in una stanza spoglia, legata mani e piedi, preda di un uomo del quale non riesce a capire le motivazioni.
Questo avvenimento sembra far impazzire il tempo, il conto dei mesi va al contrario, gli anni si riavvolgono, in un'involuzione della Storia incomprensibile, aggrovigliata, talvolta francamente inverosimile. Eppure talmente esibita, nella sua non verosimiglianza, nelle smagliature di raccordo, che è impossibile imputarne colpevole l'autore. Come a dire, in 550 pagine se ne sarà accorto, che un lettore potrebbe sentirsi un po' disorientato, e l'avrà fatto apposta.
Come nei film di Paolo Sorrentino, in cui l'esibizione è quella dell'immagine, che spesso portata al parossismo del grottesco diventa ridicola, sembra quasi innecessaria. Come se l'averla inserita rovinasse il senso, l'estetica stessa, svilisse un passaggio.
Però io Sorrentino lo perdono alla fine di ogni film, gli perdono la Santa della Grande Bellezza e il personaggio di Laura Chiatti ne L'amico di famiglia, gli perdono il concerto di mucche de La giovinezza e i primi cortometraggi kitsch.
Perché i limiti, le cose che sembrano sbagliate in un suo film, magari sono proprio quelle in cui l'autore gioca con lo spettatore, lo vuole infastidire, lo vuole spiazzare. (E lasciamolo divertire!)
Certo, questo al cinema riesce meglio, una dissolvenza incrociata avrebbe risolto tutti quei momenti in cui nel libro viene descritta la fusione temporale dell'anno dopo che si ritrae mostrando quello che c'era prima. Il momento in cui una colata di lettere di giornale si rimpastano fino a formare un articolo scritto l'anno precedente, o uno dei personaggi che cambia foggia del vestito mentre sta parlando con l'amata.
E questo tempo impazzito, che segue i fili di diverse storie di altrettanti protagonisti, viene narrato attraverso un impasto linguistico volutamente arcaizzante, dalla patina fastidiosamente desueta.
Si sente, certo, che la scrittura non è banale, non un foscolismo d'accatto che fa dell'esercizio di stile l'unico fine del romanzo. È molto voluta, pe(n)sata, calibrata.
I nomi dannunziani (ne cito tre su tutti, Isa Boccafosca, Oscar Mai, Nerazio Capitanò) ma soprattutto il baroccheggiamento della lingua, unito a una quantità spropositata di digressioni fanno nuovamente tornare in mente il sorrentinismo di una telecamera che indugi sui monumenti e sulla decadenza di Roma. Ma se alla macchina da presa questo nuovamente si può perdonare, in virtù della componente visiva, emozionale del girato, sulla pagina scritta risulta in alcuni punti eccessivo.
Come fosse un lungo dialogo smemorato dell'autore con se stesso, in cui si finisce per sentirsi a disagio.
Alla fine ci si appassiona, alle sorti sballate dal (e nel) tempo dei nostri protagonisti, fra passioni politiche anacronistiche e complicate storie d'amore, ma superare lo scoglio delle prime pagine non è una fatica che si può richiedere a tutti.
Troneggia padrona della narrazione la Roma dei vicoli e delle contraddizioni, simbolo oltre che capitale dell'Italia e della sua storia, vista da un narratore esterno ai protagonisti ma interno al tessuto cittadino.
Un narratore che spesso e volentieri riflette sul senso stesso del suo raccontare:
«(…) a noi estensori del presente racconto si precisa una responsabilità non lieve: siamo qui adesso, la nostra esperienza è fresca, non ancora colata nel gorgo melmoso della memoria. Purtroppo, a differenza dei documentaristi dell'istituto Luce, noi scrittori difettiamo di unità di vedute e di intenti. Per di più, è raro che qualcuno di noi si dia la briga di rappresentare la realtà con doveroso spirito di completezza. Piccole vicende si animano sotto i nostri piccoli sguardi. E questo pure basterebbe a dare una certa idea del tempo in cui viviamo; sennonché le piccole vicende, per quanto insignificanti, ci prendono la mano al punto che non sappiamo più osservarle da fuori, come farebbe un bravo regista cinematografico, un bravo manovratore di masse e maestro di propaganda, un bravo storico del futuro.»Questo è dunque un romanzo storico? È New Italian Epic come la chiamerebbero i Wu Ming (da cui, tramite il collettivo di lettura iQuindici, il romanzo d'esordio del 2007 di Francesco Fagioli Un certo senso venne illo tempore selezionato)?
O è tutto un gioco, una presa in giro della storia canonica e dello storicismo, della litania delle cause e conseguenze, dei corsi e ricorsi?
Un inno alla «grandiosa insensatezza dei sogni e dei miti» di un secolo di storia italiana?
Io non lo so. Non so neanche perché mi ostini a difendere così accanitamente con me stessa un libro che ha tentato in ogni modo di scoraggiarmi alla sua lettura.
Mi sono convinta che forse alla fine è per questo: che non si è lasciato capire fino in fondo.
In amore vince chi (s)fugge.
«Ma perché, Veronica, te la prendi così? Che il tempo vada avanti o indietro, non cambia il fatto che va: questa è la fregatura, e non si può far nulla.»
Giulia Marziali
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