Look at their faces when they see what it is. They won't know what they're looking at or why they like it but they'll know they want it. [Steve Jobs, un attimo prima della presentazione del Mac]
Genio, ribelle, visionario. Maniaco del controllo, star egocentrica, padre assente, personaggio eccentrico ed eccessivo. Chiunque fosse, Steve Jobs è diventato leggenda, cambiando per sempre il nostro approccio alla tecnologia.
A cinque anni dalla sua morte, il genio imperfetto della Silicon Valley rivive sullo schermo nell’ultima interessante trasposizione cinematografica uscita negli Stati Uniti lo scorso ottobre e arrivata fino agli Oscar grazie alle intense interpretazioni di Michael Fassbender e Kate Winslet, pur senza riuscire alla fine a guadagnare alcun premio.
Dopo un paio di documentari e la maldestra performance di Ashton Kutcher nel film del 2013 – che, tuttavia non è stato in fondo questo disastro totale come giudicato da molti – è il premiato regista Danny Boyle (Trainspotting, The Millionaire, 127 ore solo per citare alcuni dei suoi lavori maggiori) a mettersi alla prova con il mito di Cupertino avvalendosi della collaborazione di uno sceneggiatore del calibro di Aaron Sorkin (The Social Network, The Newsroom) e della partecipazione di fuoriclasse come Fassbender e Winslet.
Basato sull’unica biografia autorizzata e letta dallo stesso Jobs poco prima di morire nell’ottobre del 2011, il film di Boyle in realtà non mira al racconto dettagliato ed esaustivo della vita del fondatore di Apple, ricostruendo le tappe di una carriera fatta di straordinari successi ed altrettanto straordinarie cadute, tra pubblico e privato, in quello che sarebbe stato un biopic più tradizionale e, probabilmente, alla portata di un pubblico più vasto, ma sceglie invece di raccontare tre momenti cruciali della storia personale e lavorativa di Jobs, mediante un punto di vista originale. Un film quindi in cui immediatamente riconoscibile lo stile della regia di Boyle e soprattutto dei dialoghi perfetti e serrati segno distintivo di Sorkin, che insieme danno vita ad un biopic forse non convenzionale, con alcune imprecisioni narrative, ma senza dubbio intrigante; un film maggiormente apprezzato tra coloro che hanno già una certa familiarità con la storia e il linguaggio tecnico, ma in generale godibile per l’interessante chiave di lettura e, soprattutto, per le interpretazioni davvero eccellenti di protagonisti e personaggi secondari. Nei panni di Jobs, Michael Fassbender ancora una volta perfetto nel rendere tutte le sfumature del personaggio interpretato e, grazie a questo ruolo, candidato come si diceva agli ultimi premi Oscar; vittoria sfumata di fronte al premio assegnato infine a Leonardo Di Caprio che dopo anni di eccellenti interpretazioni riesce a conquistare l’agognata statuetta, ma sembra piuttosto facile ipotizzare che per un attore del calibro di Fassbender non tarderà ad arrivare anche questo riconoscimento. Certo, rispetto agli altri ruoli con cui l’attore inglese si è misurato, quello di Steve Jobs è senz’altro più misurato, lineare, ma riesce comunque a caricarlo di sfumature interessanti grazie ad una gestualità sempre attenta e una recitazione appassionata. Interpretando un personaggio tanto iconico, quasi una leggenda ormai, Fassbender riesce a restituire l’uomo e il mito, gli eccessi e le fragilità e per un attimo, la luce brillante e il sottofondo del pubblico in scena, quell’uomo alto e slanciato, l’iconica divisa e gli occhiali rotondi che a mani giunte si muove sorridente sul palco per l’atteso lancio di un nuovo prodotto, sembra davvero lui, Steve Jobs.
Dopo un paio di documentari e la maldestra performance di Ashton Kutcher nel film del 2013 – che, tuttavia non è stato in fondo questo disastro totale come giudicato da molti – è il premiato regista Danny Boyle (Trainspotting, The Millionaire, 127 ore solo per citare alcuni dei suoi lavori maggiori) a mettersi alla prova con il mito di Cupertino avvalendosi della collaborazione di uno sceneggiatore del calibro di Aaron Sorkin (The Social Network, The Newsroom) e della partecipazione di fuoriclasse come Fassbender e Winslet.
Basato sull’unica biografia autorizzata e letta dallo stesso Jobs poco prima di morire nell’ottobre del 2011, il film di Boyle in realtà non mira al racconto dettagliato ed esaustivo della vita del fondatore di Apple, ricostruendo le tappe di una carriera fatta di straordinari successi ed altrettanto straordinarie cadute, tra pubblico e privato, in quello che sarebbe stato un biopic più tradizionale e, probabilmente, alla portata di un pubblico più vasto, ma sceglie invece di raccontare tre momenti cruciali della storia personale e lavorativa di Jobs, mediante un punto di vista originale. Un film quindi in cui immediatamente riconoscibile lo stile della regia di Boyle e soprattutto dei dialoghi perfetti e serrati segno distintivo di Sorkin, che insieme danno vita ad un biopic forse non convenzionale, con alcune imprecisioni narrative, ma senza dubbio intrigante; un film maggiormente apprezzato tra coloro che hanno già una certa familiarità con la storia e il linguaggio tecnico, ma in generale godibile per l’interessante chiave di lettura e, soprattutto, per le interpretazioni davvero eccellenti di protagonisti e personaggi secondari. Nei panni di Jobs, Michael Fassbender ancora una volta perfetto nel rendere tutte le sfumature del personaggio interpretato e, grazie a questo ruolo, candidato come si diceva agli ultimi premi Oscar; vittoria sfumata di fronte al premio assegnato infine a Leonardo Di Caprio che dopo anni di eccellenti interpretazioni riesce a conquistare l’agognata statuetta, ma sembra piuttosto facile ipotizzare che per un attore del calibro di Fassbender non tarderà ad arrivare anche questo riconoscimento. Certo, rispetto agli altri ruoli con cui l’attore inglese si è misurato, quello di Steve Jobs è senz’altro più misurato, lineare, ma riesce comunque a caricarlo di sfumature interessanti grazie ad una gestualità sempre attenta e una recitazione appassionata. Interpretando un personaggio tanto iconico, quasi una leggenda ormai, Fassbender riesce a restituire l’uomo e il mito, gli eccessi e le fragilità e per un attimo, la luce brillante e il sottofondo del pubblico in scena, quell’uomo alto e slanciato, l’iconica divisa e gli occhiali rotondi che a mani giunte si muove sorridente sul palco per l’atteso lancio di un nuovo prodotto, sembra davvero lui, Steve Jobs.
Della carriera di Jobs, il film di Boyle richiama tre momenti cruciali, osservati dal backstage, in cui pubblico e privato si intrecciano: il lancio del primo Mac nel 1984, la fondazione di NeXT e la presentazione al pubblico quattro anni dopo in seguito al licenziamento da Apple, la campagna “Think Different” nel 1998 nelle vesti di nuovo di Ceo dell’azienda da lui fondata. Dietro le quinte, tra problemi tecnici, sfuriate, escamotage, pubblico e privato si intrecciano: ne scaturisce l’immagine di un uomo imperfetto, spesso brutale, perfezionista deciso a spostare sempre un po’ di più il limite del possibile, ma con cui è difficile collaborare e vedere riconosciuti i propri meriti, un padre scostante che sembra incapace di reali slanci d’affetto.
Andy Hertzfeld: We’re not a pit crew at Daytona. This can’t be fixed in seconds.
Steve Jobs: You didn’t have seconds, you had three weeks. The universe was created in the third of that time.
Andy Hertzfeld: Well, someday you’ll have to tell us how you did it.
Un uomo che non ha mai del tutto perdonato i genitori biologici per averlo dato in adozione. Un genio, brillante e visionario per alcuni, ma terribile nei rapporti umani. Accanto a Fassbender, l’intensa interpretazione di Kate Winslet nel ruolo di Joanna Hoffman (centrale membro del team Macintosh e NeXT), collaboratrice ed amica di Jobs che funge da mediatrice e coscienza di fronte alle incapacità relazionali dell’uomo. Winslet, candidata all’Oscar come attrice non protagonista (premio andato poi alla talentuosa stella emergente Alicia Vickander per la sua interpretazione in The Danish Girl), carica il personaggio di intense sfumature umane che, tra razionalità e momenti di emozioni impossibili da arginare è la perfetta spalla/contraltare del Jobs di Fassbender. È morale e coscienza, amica e confidente che non esita a riportare l’uomo entro limiti accettabili e, in questo film soprattutto, a metterlo di fronte alle proprie mancanze come padre, come uomo.
What’s been wrong with me for nineteen years. I have been a witness, and I tell you I’ve been complicit. I love you, Steve. You know how much. I love that you don’t care how much money a person makes; you care what they make. But what you make isn’t supposed to be the best part of you. When you’re a father., that’s what’s supposed to be the best part of you. And it’s caused me two decades of agony, Steve, that it is for you the worst. It’s a little thing, it’s a very small thing. Fix it. Fix it now, or you can contact me at my new job working anywhere I want. [Joanna Hoffman]
Ed è da dietro le quinte dei tre momenti qui rappresentati che lo spettatore osserva successi e fallimenti tra pubblico e privato, mentre si affiancano a Fassbender e Winslet interpretazioni interessanti come quella di Seth Rogen nei panni del vecchio amico e collaboratore Steve Wozniak con cui Jobs aveva fondato Apple tanti anni prima in quel garage diventato leggendario, e Jeff Daniels nel ruolo di John Sculley, amico e figura paterna, subentrato poi nelle vesti di Ceo di Apple dopo il licenziamento di Jobs. Tra confessioni, flashback, pressioni e scontri aperti, vecchi rancori e conflittualità private contrastano con le ovazioni di pubblico.
Steve Wozniak: You can’t write code. You’re not an engineer. You’re not a designer. You can’t put a hammer to a nail. I built the circuit board. The graphical interface was stolen from Xerox PARC. Jef Raskin was the leader of the Mac team before you threw him off his own project. Everything… Someone else designed the box. So how come ten times in a day, I read “Steve Jobs is a genius”? What do you do?
Steve Jobs: I play the orchestra. And you’re a good musician. You sit right there. You’re the best in your row.
Tra flashback che ne ricostruiscono alcuni tra i momenti salienti della carriera, il personaggio dipinto da Boyle e Sorkin è un uomo pieno di difetti nei confronti del quale forse è difficile provare empatia eppure è impossibile non restare stregati da quel carisma che traspare anche da questa interpretazione cinematografica, che non condanna nè assolve, non mira a ricostruire per intero le tappe che lo hanno portato al successo o al racconto della vicenda privata, ma a restituire un pezzo di vita, un frammento dell’uomo diventato un’icona.
di Debora Lambruschini
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