Di Paul Auster
Einaudi, 2009
€ 10,80 cartaceo
Pp. 314
Precisamente venti anni fa Einaudi
pubblicava in Italia una raccolta di tre racconti-romanzi che avevano visto la
luce circa un decennio prima nella Grande mela.
Tre storie che più di ogni altra cosa
giocano con la letteratura in un tentativo tutto postmoderno di accedere alle
forme classiche stravolgendole irrimediabilmente. Auster plasma il genere della
Mistery fiction con un’allucinata
deificazione del linguaggio. Un incontro disturbante tra Chandler e Derrida;
tra il duro detective in cerca della verità e lo scrittore consapevole che la
vita prima di poter essere vissuta va raccontata.
All’inizio, non
c’erano che il fatto e le sue conseguenze. La questione non è se si sarebbero
potuti sviluppare altrimenti o se invece tutto fosse già stabilito dalla prima
parola detta dallo sconosciuto. La questione è la storia in sé: che abbia
significato o no, non spetta alla storia spiegarlo.
Troviamo già alla
prima pagina di Città di vetro le coordinate,
la poetica dell’autore: persi nella città, sconvolti dalle forme e dagli
oggetti ormai svuotati di qualsiasi significato, l’unico principio di verità
rimane la storia, il racconto; la parola più che i fatti, la scrittura più che
gli eventi.
Persino i
protagonisti ne sono ben consapevoli (due di loro persino scrittori), vagano
per le strade con taccuini o verbali troppo letterari perché siano semplici
annotazioni; personaggi che producono storie nelle storie nel tentativo estremo
di trascrivere la vita senza che questa sfugga come sabbia tra le dita.
New York come una
moderna Babele dove il miraggio del linguaggio universale ha preso forma a
discapito di tutto, distruggendo le coscienze più di ogni altra cosa. Individui
che perdono l’identità cercando risposte, che hanno nomi stilizzati – White,
Blue, Brown – proprio perché non sono nessuno, e se in principio potevano
vantare una certa forma l’hanno ormai
irrimediabilmente persa, coscienti o meno:
Adesso Quinn non
era in nessun luogo. Non aveva niente, non sapeva niente. Non soltanto era
stato rimandato alla partenza; ora si trovava prima della partenza, in un punto
così antecedente alla partenza da essere peggio di qualunque arrivo
immaginabile.
Indubbiamente si
parla di un’opera che riesce a giocare la carta della metanarratività con una magistrale
attenzione per il particolare. Attenzione per i richiami alla Storia, alla
grande Letteratura, richiami all’autore stesso che diventa personaggio con la
moglie e il figlio al seguito, attenzione alla scrittura e alla scrittura della
scrittura. Un testo che prende la fisionomia di un infinito loop verbale in cui
ogni cosa viene raccontata e raccontata e raccontata e raccontata...
Non sai più chi
sei. Probabile che tu abbia vissuto da barbone su strade ormai troppo
familiari, che tu abbia a tal punto osservato un altro da credere di essere
spiritualmente in contatto con lui.
E mentre facevi
questo, mentre dimenticavi te stesso nell’inseguimento, le pagine stavano
finendo e anche tu stavi scomparendo:
Questo periodo di
crescente oscurità coincise con il ridursi delle pagine del taccuino rosso. Piano
piano, Quinn lo stava esaurendo. A un certo punto capì che più scriveva, e più
presto sarebbe scoccata l’ora in cui non avrebbe potuto più scrivere. […] L’ultima
frase sul taccuino rosso dice: «Cosa succederà quando non ci saranno più pagine
nel taccuino rosso?»
Tre decadi dunque da una delle composizioni
più convincenti e riuscite della letteratura americana di fine Novecento.
Una brillante
allegoria dell’esistenza attraverso le parole, dove però la parte astratta da
rappresentare viene rappresentata da se stessa, dove non c’è parte astratta in
effetti. Un’allegoria dove le componenti concrete che dovrebbero formare l’immagine
si sgretolano per lasciar posto alle parole, semplicemente alle parole.
Such is the way of
the world: one step at a time, one word and then the next.
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