Un composto spontaneo che genera corrosione: la «Ruggine»


Ruggine
di Anna Luisa Pignatelli
Fazi editore, 2016

pp. 151
euro 16 (cartaceo)
euro 7.99 (ebook)



Un libro ostinato, privo di mezze misure: Ruggine stravolge e travolge, attraverso una scrittura diretta, al limite della crudezza, ma pervasa di quell’afflato lirico-visuale, conditio sine qua non della nostra letteratura.
Sembra di stare lì, tra Gina e Ferro, in un interstizio privilegiato, con discrezione e senza interferire: a volte si sente l’impulso di intervenire, di dire qualcosa, di chiosare. Ma si è impossibilitati da un ritmo narratologico serrato e inchiodato alla parola.
Un narratore che si astrae, come se i fatti si svolgessero e avvolgessero in una spirale senza tempo, ma in luoghi familiari sin dalla prima pagina.

La scrittura della Pignatelli presta la voce al grido di chi vive ai margini, non solo della società e dell’opinione comune, ma anche della vita stessa. Un’emarginata che si lascia andare alla corrente, senza lottare, ma cercando un senso, nascondendosi dietro i pensieri degli altri: «Gina s’adattava volentieri alla monotonia e al prevedibile. Fare sempre le stesse cose le sembrava di avere presa sul tempo» (p. 109).
L’adattamento, l’abitudine, la noia delle giornate condannate ex origine prendono in mano i cronotopi altrui, giudicandoli e filtrandoli alla luce della propria prevedibilità. Questi atteggiamenti dicotomici (Gina che vorrebbe fare, ma alla fine si adatta / altri personaggi che fanno davvero, anche con malvagità) coinvolgono anche l’atto di dire: «Nella strada ci si imbatte nella verità» (p. 84); o ancora: «La parola detta per via è più vera, meno ingannevole» (ibidem).
Gina fa un percorso, e la Pignatelli lo descrive senza pretese di formazione o di salvezza dall’opinione pubblica: un calvario, una corona di spine, una redenzione tutta umana. Per questo il libro è privo di frane, composto, compatto, senza il minimo cedimento, eppure irrequieto, convulso.
Un qualcosa si aggira nell’aria, un’eco verghiana: una ruggine che ricorda il rosso di Rosso Malpelo, senza un epigonismo esasperato. Si intravedono in controluce la desolazione e i vortici nullificanti di Tozzi, la tangibilità e l’asprezza dei veristi, ma anche quella sottile ironia per gli emarginati, tipica della Scapigliatura.
La Pignatelli ha un’attitudine spiccata per il bozzetto, ma con segno rovesciato, lontano dall’idillio, dalla simpatia degli umili e dalla partecipazione alle sofferenze di Caterina Percoto: non si è più nei loci amoeni, ma nel disfacimento. I personaggi, nessuno escluso, lottano tra l’horror vacui e l’amor vacui, senza arrivare a soluzione alcuna, ma penzolando lungo il limbo della follia presunta o tale.
È in questo modo che il verismo e il realismo si mescolano, senza possibilità di ritorno, a un deserto dechirichiano, allucinato e delirante.
Questa desolazione dialoga con l’oggi (si pensi al personaggio di Tamara), ma non lo contamina, restando cristallizzata in una storia che sembra anacronistica e lontana, ma che è sempre in agguato.
Bruno Quaranta ha parlato di «landolfiana riduzione al nulla», di un «meditato ed efferato assedio d’anima». In Ruggine si assiste alla riduzione al nulla di un nulla archetipico e ancestrale, che non risparmia nessuno e nulla, nemmeno il rapporto madre-figlio. Manca ogni salvezza, viene a cadere anche la pietas filiale di virgiliana memoria.
In questo contesto di segno negativo, si punisce la diversità, permettendole di vivere nell’oblio sia dell’io sia dell’alterità. L’indifferenza e la bestialità, l’oblio e l’assenza in presenza generano la superstizione: ne conseguono maltrattamenti e infelicità, rassegnazione e assenza, ma, per reazione contraria, anche orgoglio e sfrontatezza.
L’attenzione dedicata all’emarginato è totale, a trecentosessanta gradi, senza escludere nulla, nemmeno i difetti dalla protagonista.
Per queste ragioni è difficile fare critica o dire qualcosa su Ruggine: Tabucchi docet, la lama tagliente della scrittura desola e nullifica. Eppure questi processi di desolazione e nullificazione, latenti dall’alba dei tempi, sono la condizione per cui il fenomeno della letteratura può accadere, coinvolgendo tutti nell’esplosione.
La Pignatelli non mette in discussione l’ordo umano dettato dalle regole e condizioni sociali. Ma scandaglia e anatomizza, come un chirurgo, ritagliando e staccando le figure dal ruolo prestabilito. Solo in questo modo può osservare il buco nero che esse lasciano e scrivere di esso. Se nullificare significa creare un nulla, un’assenza, Ruggine è il libro del vuoto. Manca una prospettiva, un punto di fuga, un punto focale, un’indicazione. Ed è proprio il buco nero degli ossimori la peculiarità vincente: un’immobilità mobile, che trova nel fermo-immagine la dinamica, simbolo di un destino che può rotolare ovunque, salvando o sommergendo.
La composizione spontanea di vari ossidi di ferro idrati e di carbonati basici genera la ruggine. Questa, a sua volta, origina un fenomeno di corrosione dei materiali ferrosi.
Ne consegue che un composto spontaneo che genera corrosione: un po’ come la protagonista, un po’ come la Pignatelli.
Ci si può proteggere dalla formazione della ruggine, con la zincatura o con vernici speciali: ma si è sempre nel dubbio e nel timore che essa possa formarsi.

Non che avesse desiderato vivere in altri luoghi: l’esistenza può essere sfaccettata e imprevedibile anche se si snoda nello stesso posto, e a volte non bastano le forze per affrontarla anche quando sembra monocorde e uggiosa. Per quanto uno si sforzi di non nuocere, i nemici sono sempre in agguato e perfino nel chiuso di due stanze si annidano le insidie.

Ilaria Batassa