di Harry N. MacLean
Fazi, 2016
p. 255
€ 16,00
Titolo originale: The Joy of Killing
Traduzione di Fabio Pedone
Benché pubblicato nella nuova collana che Fazi dedica al noir (intitolata non a caso "Darkside"), il romanzo di Harry MacLean abbatte e travolge senza nessuna ritrosia tutte le possibili limitazioni di genere. La gioia di uccidere è un testo ambiguo, discontinuo, ingannevole. L’autore gioca con il lettore, semina indizi per rimetterli immediatamente in discussione, spiazza ogni prospettiva sicura e si compiace nel disgregare la trama in una serie infinita di visioni e revisioni sempre parziali (nel duplice senso di incomplete e faziose).
Il narratore interno, ex professore universitario e romanziere, viene presentato subito come inaffidabile e confuso, e l’opera si configura come un percorso di scavo nel passato alla ricerca di una verità non più (o non ancora) conosciuta:
la sensazione di angoscia disperata che proviene dal non sapere sparirà presto per essere sostituita da una chiarezza incrollabile [...] è da un bel po’ di tempo che ho perso la capacità di distinguere queste cose, quel che è vero e quel che non lo è, il reale e il non reale. Se una cosa è accaduta oppure no. (15, 17)
Grava sul racconto una sensazione di ineluttabilità, di tragedia imminente: qualcosa succederà alla fine della notte, una volta che le dinamiche dei fatti saranno state chiarite, che sarà stato fatto ordine in ricordi sparsi e taglienti come frammenti di uno specchio rotto, in cui il protagonista desidera riflettersi per comprendere finalmente qualcosa di sé.
La notte tormentata e interminabile della scrittura – che si immagina condotta in presa diretta, pagina dopo pagina, in un presente dilatato fino allo sfinimento (del personaggio come del lettore) – richiama alla mente un’altra notte altrettanto campale. Correva l’anno 1958 e due ragazzini che si erano appena conosciuti facevano l’amore a bordo di un treno. Scorci dell’amplesso, goffo e appassionato al tempo stesso, vengono intervallati per l’intera durata del romanzo ai tentativi dell’io narrante di assemblare brandelli di memoria come fossero i pezzi di un puzzle incompleto: «quanto poco vediamo di ciò che ci rende quelli che siamo, di ciò che ci spinge verso una strada invece che un’altra» (35).
Quarant’anni dopo, la ragazza del treno, con i suoi «occhi mistici un po’ cupi» (250), sembra essere l’unico punto fermo nella confusione dilagante del pensiero, il filo rosso che riuscirà a raccordare tutte le informazioni via via racimolate, che darà un significato a eventi che appaiono slegati e illogici se presi nella loro singolarità.
Il narratore si confessa un uomo malato, la cui malattia sono le immagini che irrompono prepotentemente nella sua quotidianità ad alterarne il corso, senza che il più delle volte lui sappia spiegarsele. La storia si articola – o meglio si disarticola – intorno a tre momenti esistenziali considerati fondamentali, seppure non pienamente intesi fino alle ultime pagine: l’incontro avvenuto sul treno; l’annegamento di un compagno di giochi dell’infanzia, il biondo e imprudente Joseph; una brutta avventura che ha coinvolto il suo migliore amico David e il poco raccomandabile Willie Benson. Accompagna il percorso di ricostruzione del ricordo la continua teorizzazione di un folle ed estremo determinismo, l’idea che l’uomo agisca in base a un insanabile egoismo e sia mosso da forze che lo trascendono e che sono direttamente riconducibili alla sua natura animale; l’odio, l’amore, la paura, l’omicidio (la gioia di uccidere a cui allude il titolo) non possono essere compresi né giudicati, poiché fanno parte della conformazione sostanziale dell’essere umano. È evidente la forte impronta freudiana che soggiace al testo: vero protagonista della narrazione è infatti il rimosso che cerca di riemergere, la pulsione di morte che giace al fondo dell’individuo e lo domina.
la mente ha bisogno di una storia, che spunta fuori e resiste e viene rifiutata man mano che affiora una narrazione, e perciò si accoglie la versione corrente a proprio rischio e pericolo, ma quando non resta più nulla da difendere, da tenere insieme, quando hai smesso di aspettarti di giungere da qualche parte, a me pare che la storia possa forse iniziare a mostrare una forte somiglianza con quel che è successo davvero. (63)
Il lettore intuisce prima del narratore la verità celata dietro il ricordo. Inizia a sospettare, e poco alla volta i sospetti diventano più forti e si mutano in evidenze. Si sente intelligente, il lettore, si sente un vincitore. Si sente ripagato della fatica del testo, dell’aver dovuto arrancare per ore insieme al protagonista per avere le prove che gli erano necessarie per mettere un punto fermo alla vicenda. Per questo l’imprevista, imprevedibile svolta conclusiva lo sbigottisce e lo disarma.
L’autore riesce nell’intento di escogitare il finale che nessuno si aspetta, e lo fa a caro prezzo. Il prezzo è la dignità del lettore, che improvvisamente realizza di non aver capito assolutamente nulla e si sente tradito, defraudato di un premio faticosamente conquistato. Si comprende allora come La gioia di uccidere non sia tanto un’opera sulla natura dell’uomo, quanto sui meccanismi che presiedono ad ogni creazione poetica e narrativa. La gioia di uccidere è primariamente un romanzo che parla della scrittura, della fatica che comporta, degli esorcismi che consente, delle menzogne che legittima.
Un romanzo in cui la scrittura detta i tempi della vita e della morte e in cui la lingua può essere alterata a piacimento (da un certo punto in poi l’io narrante inizia a scrivere sistematicamente portaffogli al posto di portafogli, per «dargli un po’ più di mordente», 56), a dimostrare l’onnipotenza sovrana della figura autoriale. E, cosa ben più interessante, l’autore di cui viene sancita la superiorità non è quello che agisce all’interno della finzione narrativa, ma quello che ordisce l’intero intreccio. Non c’è disonestà nel personaggio principale, il sadismo è tutto dalla parte di Harry MacLean, che celebra al tempo stesso il proprio ruolo demiurgico e il proprio diritto a manipolare la trama, così come la credulità del suo pubblico.
La gioia di uccidere non è un libro per arroganti o per maniaci del controllo: la sua conclusione decreta lo scacco della ragione, punisce la superbia, condanna il semplicismo e rinnova dall’interno un genere letterario solitamente considerato d’intrattenimento. La lettura è assolutamente sconsigliata a chi ha fretta, a chi ama le trame lineari e le soluzioni rassicuranti, agli amanti della sobrietà e del politicamente corretto, ma soprattutto a chi non vuole interrogarsi sulle fragilità dell’essere umano e sulla labilità di ogni certezza.
Carolina Pernigo
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