Le intermittenze della morte
di José Saramago
Traduzione di Rita Desti
Feltrinelli, 2013
pp. 218
9,50 euro
9,50 euro
Una scrittura unica. Certo bisogna adagiarvisi in tutto,
scorrere veloci tra le parole per iniziare a carpirne la fluidità. Uno stile
come quello di Saramago si spalma sulla pagina sempre più giù, virgola dopo
virgola, e non ammette distrazioni. All’inizio si nuota a fatica tra le pagine
alla disperata ricerca di un punto, ci si trova condotti da un fiume impetuoso,
e si finisce per aggrapparsi con sollievo a ogni pausa che si incontra. Non
appena però ci si lascia trasportare per davvero – senza timori o preconcetti –
dalla corrente narrativa, senza anelare l’oasi di quiete che il punto
garantisce, la navigazione diventa squisita. Saramago ci trascina in un universo
narrativo fatto di pensieri liquidi ed eventi impossibili, a metà tra la fiaba
dal sapore moraleggiante e l’amara critica ad alcuni paradossi della civiltà umana.
Quello di Saramago è un mondo talmente assurdo da riflettere il nostro, pagina dopo pagina. Cosa accadrebbe se da un
giorno all’altro nessuno morisse più? Gli anziani aumenterebbero portando la
sanità pubblica al collasso, tutti i malati gravi resterebbero in un limbo tra
la morte e la non-vita costringendo i familiari a rivolgersi a una fantomatica maphia che trasporta gli
interessati oltre il confine, in una regione dove ancora è possibile morire.
Per non parlare di tutti quei settori, onoranze funebri in primis, obbligati a
inventarsi situazioni alternative alla morte dell'uomo per non fallire. Anche la chiesa,
che aveva fatto della vita eterna la risposta alla morte, si ritrova senza
argomenti per attirare a sé i fedeli. Saramago usa la leggerezza della fiaba per
colpire dritto ogni nervo scoperto della nostra società. Dal rispetto degli
anziani e la presa di coscienza di un mondo che inesorabilmente invecchia, sino
a puntare l’indice sulla bestialità di una politica sterile tutta apparenza,
Saramago fa riflettere sulla questione dell’illegalità dell’eutanasia e sul
diritto di ciascuno a decidere. E ancora, la denuncia di una religione interpretata
come mera dispensatrice di speranza per un aldilà futuro, senza l’onere di
occuparsi realmente dell’hic et nunc umano. E, non per ultima, Saramago fa
emergere la dinamica delle mafie come risposta a vuoti dello stato che trova
bacino fertile nella disperazione della gente.
Ma la vera bellezza del libro sta nella musica che lo
pervade, nel fluire orchestrale della prosa e alle citazioni che lo costellano,
come disseminati echi di domande senza risposta. La musica intesa non soltanto
come ritmo cadenzato della narrazione che accompagna l’interiorità del lettore,
ma musica come presenza importante e perentoria. Colui che elude la morte è,
non per niente, un musicista. L’ultimo atto del libro si gioca tra spartiti
sbirciati ed esibizioni a teatro.
Per un istante la morte si liberò da se stessa, espandendosi fino alle pareti, riempì tutta la stanza e si allungò come un fluido fino alla stanza contigua, dove una parte si soffermò a guardare il quaderno che stava lì aperto su una sedia, era la suite numero sei opera mille e dodici in re maggiore di johann sebastian bach composta a cöthen e non ebbe bisogno di aver studiato musica per sapere che era stata scritta, come la nona sinfonia di beethoven, nella tonalità della gioia, dell’unità fra gli uomini, dell’amicizia e dell’amore. Accadde allora qualcosa di mai visto, qualcosa di non immaginabile, la morte si accosciò sulle ginocchia, adesso era, tutta quanta un corpo ricostituito, ed ecco perché aveva ginocchia, e gambe, e piedi, e braccia, e mani, e un viso che si nascondeva fra le mani, e spalle che tremavano non si sa perché, un pianto non dev’essere, non si può chiedere tanto a chi lascia sempre una scia di lacrime dovunque passa, ma mai nessuna che sia sua. (p. 159)
È la musica a sottendere alla narrazione una positività di
fondo, una risposta – seppur impalpabile e transitoria – alla più importante
delle domande. Certo, Saramago avvisa il lettore sin dall’inizio:
Sapremo sempre meno che cos’è un essere umano.
Libro delle previsioni (p. 9)
Ma Saramago rende la morte vulnerabile alla musica la quale, il qualche modo, fa da controcanto alla citazione iniziale diventando chiave di lettura della vita.
Un giorno, chiacchierando con alcuni colleghi dell’orchestra [...] gli era venuto in mente di dire che il suo ritratto, se davvero fosse esistito in musica, non lo avrebbero certo trovato in nessuna composizione per violoncello, ma in un brevissimo studio si chopin, opera venticinque, numero nove, il sol bemolle maggiore. Gli avevano domandato perché e lui aveva risposto che non riusciva a vedersi in nient’altro che fosse stato scritto in uno spartito e che quella gli sembrava la migliore delle ragioni. [...] La morte, però, che per dovere d’ufficio aveva ascoltato tante altre musiche, specialmente la marcia funebre dello stesso chopin o l’adagio assai della terza sinfonia di beethoven, ebbe per la prima volta nella sua lunghissima vita la percezione di quella che sarebbe potuta essere infine una perfetta affinità di ciò che si dice il modo in cui lo si sta dicendo. Le importava be poco che quello fosse il ritratto musicale del violoncellista, la cosa più probabile è che le addotte somiglianze, tanto le effettive quanto le immaginate, se le fosse costruite lui stesso nella sua testa, quello che impressionava la morte era il fatto che le era parso di sentire in quei cinquantotto secondi di musica una trasposizione ritmica e melodica di ogni e qualsivoglia vita umana, normale o straordinaria, per la sua tragica brevità, per la sua intensità disperata, e anche per via di quell’accordo finale che era come un punto di sospensione lasciato nell’aria, nel vago, da qualche parte, come se, irrimediabilmente, fosse rimasto ancora qualcosa da dire. (p. 178-180)
L’arte, in questo caso la musica, resta l’unico sgabello sul quale possiamo salire per gettare uno sguardo, veloce e fugace, al di là di questo muro impenetrabile.
Manuela Cortesi