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#CriticaNera - Alle origini del noir italiano: "Venere privata" di Giorgio Scerbanenco

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Venere privata
di Giorgio Scerbanenco
Milano, Garzanti


C’è stato un momento nella storia della letteratura italiana in cui il giallo è diventato nero. Un momento in cui le copertine dei gialli Mondadori, che dagli anni ’20 del Novecento avevano dato colore e nome al poliziesco italiano, avrebbero dovuto scalfirsi del noir delle atmosfere che Giorgio Scerbanenco stava ricreando sulla pagina del primo romanzo della serie Lamberti, Venere Privata.

Siamo negli anni ’60 del Novecento, in pieno boom economico e nell’unica, vera, metropoli internazionale che l’Italia abbia mai conosciuto: Milano. Un medico radiato e appena uscito di galera dopo un’accusa di eutanasia, Duca Lamberti, viene assoldato da un ricco imprenditore di provincia per fare la guardia al figlio alcolizzato, Davide, e fargli perdere il vizio del bicchiere facile. Se per il padre di Davide l’alcolismo era banale immaturità, Duca capisce che dietro la bottiglia di whiskey si nasconde un malessere ben più profondo: il ragazzone è corroso dal senso di colpa per non aver evitato la morte di una giovane donna, Alberta Radelli. Lamberti inizia a indagare, coadiuvato dalla polizia del commissariato di via Fatebenefratelli, e non si dà pace fino a quando non scopre la verità e scoperchia un vaso di Pandora: dietro la morte della giovane donna si cela un bieco e insulso giro di prostituzione.

Se in un’aula universitaria dovessi spiegare quale sia la differenza tra un giallo, un poliziesco classico e un noir, Venere privata sarebbe il romanzo paradigmatico, esemplare, per spiegarlo, a causa di almeno due elementi.

Partiamo dall’investigatore, Duca Lamberti: un ex medico iscritto all’Albo, un ex detenuto, un disilluso che non può e non riesce a credere nel sistema Italia. Radiato per eutanasia, considera l’alcolismo frutto di malesseri profondi dell’animo umano e mantiene uno sguardo lucido sul fenomeno della prostituzione degli anni ’60, caduta in mano alla malavita dopo che la legge Merlin chiuse le case di tolleranza nel 1958. Duca Lamberti vive ai margini della società: appena scontata la pena si mantiene defilato, per entrare nel vivo della realtà che lo circonda solo quando strettamente necessario. In questo caso per aiutare Davide a uscire dall’alcolismo, compito che porta a termine con metodi moderni e con abnegazione medica, come a dimostrare che certe professioni sono in realtà vere e proprie vocazioni. E se indaga sulla morte di Alberta, lo fa per due ragioni: portare a termine il suo incarico e dare sfogo all’ossessione tipica dei detective contemporanei, la verità. Questo è infatti il motore che fa muovere tutta l’azione di Lamberti: dapprima per capire cosa abbia avvelenato la vita di Davide, a tal punto da affogare tutta la sua giovinezza in una bottiglia di whiskey; poi, per scoprire chi e in quali circostanze abbia svenato Alberta Radelli e, indirettamente, innescato la depressione del suo paziente.

Veniamo ora alla città: Milano. Capitale morale e motore industriale (insieme a Torino e Genova) di un Paese in piena crescita economica, la città della Madonnina è magnificamente grigia, anche se l’azione si svolge in estate. Un’estate umida e calda, a tal punto che le pagine trasudano la desolazione dell’agosto meneghino. Milano non ha un ruolo assimilabile a quello di un personaggio, ma questa storia non avrebbe potuto svolgersi altrove. La città, con la sua ambizione a essere metropoli e come punto di confluenza di tutto il bene e il male che popola il Paese, è lo scenario noir per eccellenza nell’Italia dell'epoca e Scerbanenco sfrutta l’appeal del capoluogo lombardo fino all’ultima lastra di pavé. Duca Lamberti si muove tra le strade della città con estrema disinvoltura. La topografia è estremamente precisa e i movimenti dei personaggi sono ricostruibili a memoria per chi conosca la città: piazza Leonardo da Vinci, i giardini di Porta Venezia, via Plinio, via Fatebenefratelli, ecc.

Questi due elementi, il detective ossessionato dalla verità con uno sguardo disincantato sul mondo e la città come spazio privilegiato di manovra del crimine e di trionfo dell’ingiustizia, confluiscono nel maggior merito che, a mio avviso, ha Venere privata: dare al lettore un’immagine quanto mai significativa dell’Italia dell’epoca, un’Italia spesso entrata nel mito, sicuramente rimpianta e osservata con nostalgia; l’Italia del boom economico.

Siamo negli anni ’60, in piena egemonia democristiana, trionfo a livello politico dei valori nazionalcattolici declinati in forma democratica, e Scerbanenco ci parla apertamente di eutanasia, prostituzione, omosessualità (il fotografo invertito che ritrae la vittima nuda) e alcolismo. Questi temi di natura sociale, che da tempo immemore aspettano un’azione politica forte, vengono affrontati di petto: Lamberti non ha accettato la sua condanna per omicidio; l’eutanasia è già un problema etico e lo sarà nei decenni successivi e lo è ancora oggi; la prostituzione, che la legge Merlin non ha fermato, ma solo nascosto e regalato alla malavita, è il business nel quale vengono intrappolate la vittima e le sue amiche, definite dal narratore «operatrici» (p. 63); l’omosessualità del fotografo è descritta dallo stesso autore come una inversione, eufemismo che evita la parola omosessuale e che probabilmente sarebbe stata censurata (sono diversi i momenti in cui Scerbanenco ricorre ad acrobazie linguistiche, come a pagina 79, quando l’«elefantiasi mammaria» vorrebbe indicare un seno smisurato). E infine l’alcolismo, nel quale Davide affoga la sua disperazione, che è molto di più che un vizio, è una patologia che va curata e non è frutto di follia o immaturità, come vorrebbe credere il padre del ragazzo.

Il lettore affronta tutto ciò attraverso lo sguardo di Lamberti che si fa portavoce di un discorso critico nei confronti della realtà italiana dell’epoca, ma anche di oggi. Qui risiede l’universalità di Venere privata: l’italiano del XXI secolo che legge Scerbanenco riconosce i problemi della società che lo scrittore tratta e li rivede nella sua realtà, osservandola ora con un punto di vista distinto, mediato forse, ma certamente critico. Il noir viene servito nella più classica delle sue accezioni: un genere narrativo che attraverso l'indagine su di un crimine porta avanti una forte critica nei confronti dello status quo. E non vi è alcun dubbio in merito: Duca Lamberti sta all’Italia come Sam Spade e Philip Marlowe stanno agli Stati Uniti d’America.