La New York di Brendan Behan
66thand2nd, 2015
trad. Riccardo Michelucci
pp. 168
€ 20
"Ma lasciatemi qui nel mio pezzo di cielo ad affogare i cattivi ricordi
nelle vie di New York il poeta è da solo e nessuno lo salverà"
Partiamo da qui, dalla canzone che i
Modena City Ramblers dedicano ai poeti che muoiono di solitudine nel
loro album del 1994 Riportando tutto a casa.
In particolar modo, si riferiscono a
Shane McGowan, leader dei Pogues,che dopo aver lasciato il gruppo si
rifugiò a New York per disintossicarsi dall'alcol e al nostro
Brendan Behan, scrittore dublinese morto di coma epatico nel 1964.
Breve carriera, un solo romanzo,
autobiografico, Ragazzo del Borstal, qualche commedia, alcuni
talk book.
Ha tutte la carte in regola per
diventare una leggenda.
Il New York Times annuncia il suo
avvento, il 18 settembre 1960, con queste parole: «Tutti sanno ormai
dell’arrivo in città di un licenzioso, iconoclastico,
ex-rivoluzionario dell’Ira, tarchiato, sgualcito, arruffato,
drammaturgo di Dublino di nome Brendan Behan.»
E
inizia così un'avventura che la casa editrice romana 66thand2nd
ci regala la possibilità di riscoprire, in un'edizione che sembra
quasi un quadernetto di appunti, leggermente quadrotta, con i disegni
di Paul Hogarth e una tramatura di carta deliziosa al tatto.
Così come i disegni, anche i pensieri
di Behan sono schizzi, un groviglio di considerazioni a cascata,
senza soluzione di continuità, argutamente trascinanti.
Aneddoti e storielle, riflessioni serie
ma sempre un po' arruffate, il sogno lucido di un ubriacone,
impastato d'alcol eppure di rara brillantezza. Una serie di eventi
che disegnano la geografia dei luoghi newyorkesi dell'irlandesità,
fra ex combattenti dell'Ira, sbevazzatori professionisti, artisti,
sagge vecchiette e tassisti chiacchieroni.
È il ritratto di una città con altri
occhi l'essenza, affascinante, di questo libro. Ma non occhi
qualunque: sono occhi irlandesi.
E non è chi non conosce New York che
potrebbe trovarsi disorientato, ma chi non ha mai parlato con un
irlandese orgoglioso della sua terra.
«Niente mi infastidisce di più di chi cerca di mettere un'etichetta alle generazioni di scrittori, come se la letteratura nascesse in una clinica ostetrica. Ma Dio mio, gli scrittori non nascono mica per via generazionale. Una volta mi chiesero se ero uno scrittore della classe operaia. Ora, io ho senza dubbio origini proletarie ma non mi considero uno scrittore della classe operaia, o uno scrittore irlandese, o di qualsiasi altro gruppo particolare. Mi considero semplicemente uno scrittore.»
Eppure la cifra
dell'essere irlandese è qualcosa che resta intrisa nelle pagine,
gronda da ogni parola, con l'ironia e il distacco ma anche l'affetto,
profondo, per la propria patria (era egli stesso ex militante
dell'Ira): e allora no, non chiamiamolo “scrittore irlandese”, ma... come dire? "uomo
irlandese dotato di un raro talento per la scrittura"? Temo che anche questo goffo tentativo di perifrasi non sarebbe sfuggito al suo implacabile sarcasmo.
E qui siamo a New York, la patria della
libertà, eppure il racconto prescinde dalla città pur essendone
informato: Brendan Behan racconta se stesso in rapporto alla città.
«Io non sono un prete ma un peccatore. Non sono uno psichiatra ma un nevrotico. Le mie nevrosi sono gli strumenti essenziali della mia sopravvivenza.»
Ogni racconto è racconto
anche di se stessi: così quello della «più grande città sulla Terra» è
quello di un'abbuffata di emozioni.
Di Behan, certo, ma anche nostra.
Che restiamo ubriachi, e inebriati, e impressa negli occhi ci rimane una visione dell'America improvvisa degli emigranti.
Giulia Marziali