di Giordano Meacci
Minimum Fax, 2016
pp. 450
€ 16 (cartaceo)
Uno zaino ben carico di concentrazione e un binocolo che permetta di adocchiare a distanza le intenzioni linguistiche: ecco quel che serve per affrontare l'impervio cammino di Il cinghiale che uccise Liberty Valance. Quando si giunge in vetta al romanzo, si vede tutto il gioco di vallate e cucuzzoli ora erosi e ora costruiti da Meacci che, come un grande creatore, va a sagomare un paesino inesistente, Corsignano, al confine tra Toscana e Umbria. Il suo plastico è facilmente riproducibile: basta mettere case che sanno di tradizione, accanto a stalle col loro classico odore ferino, stradette piene di pettegolezzi e di perdigiorno, botteghe dove il proprietario si affaccia sulla porta e a salutare. Come ci si allontana dal borgo, un po' di alberi, foresta e un paio di macchine appartate (i motivi, potete immaginarli). Se si scoperchiassero i tetti di quelle case, si percepirebbero le nostalgie di chi è rimasto ormai solo e di chi si sente inadeguato, e si vedrebbero le tv con davanti quattro ragazzotti, pronti a parlare (con un po' di supponenza) di grande cinema, tra cui L'uomo che uccise Liberty Valance a cui è ispirato il titolo.
Ma allora, a cosa si deve il "cinghiale"? A completare il plastico di Corsignano, infatti, mancano le presenze più originali e invadenti: i cinghiali. Nulla di strano, data la posizione geografica, no? Certo, ma è strano che i cinghiali si avvicinino tanto all'uomo, scorrazzino per le strade del paese e prendano parte - direttamente o come testimoni - a quasi tutti gli episodi. Eppure il tutto ha una spiegazione: Apperbohr, il cinghiale protagonista, si accorge di capire sempre di più gli "Alti sulle Zampe" e di riuscire ad apprendere parole del loro vocabolario. Sorpreso e incuriosito, il cinghiale filtra ciò che vede attraverso gli odori, le sensazioni e le parole che via via sa spiegarsi meglio. Insomma, non è un cinghiale ottuso e senza memoria come i suoi compagni, ma, anzi, riporta una visione innocente e genuina di Corsignano.
Tuttavia, la presenza pacifica di Apperbohr e degli altri suoi simili è registrata sui giornali locali come un'invasione pericolosa: quali le soluzioni?
Il relativismo che sembra suggerire Meacci, lo sperimentalismo linguistico (i cinghiali parlano il cinghialese, di cui si riporta un simpatico - ma anche pungente - glossario) e narrativo (tanti i personaggi, altrettante le vicende), il continuo zizzagare cronologico (le vincende si ambientano ora nel 1999, ora nel 2000), rendono questo singolare romanzo corale una vera e propria sfida. Il filo rosso, certo, è la bravura di Meacci, che regala frasi splendidamente perfette facendo vibrare, ancora una volta, la parola "arte" nelle nostre gole, ora strette dalla commozione di certe pagine, ora aperte in una liberatoria risata.
GMGhioni