di Fabrizio De André
Mondadori, 2016
pp. 240
€ 19,50 (cartaceo)
Non sono un fabbricante di sogni, non lo sarò mai. Ho il virus della realtà.
Febbricitante. È questo lo stato in cui si sfogliano le pagine di Sotto le ciglia chissà, i diari di Fabrizio De André appena usciti per Mondadori e già ai primi posti delle classifiche di saggistica. Chiamarli diari è complesso, perché i frammenti che ci vengono offerti spesso sfuggono dal contingente come dai fatti privati, e hanno molto del taccuino di lavoro, con lacerti di poesie/possibili canzoni, aforismi, appunti per (vere o ipotetiche) interviste, citazioni amate, pareri su colleghi, cantanti e cantautori. Le date, in fase di curatela, sono state tolte, forse per rendere il testo più slegato dal momento della scrittura e universalizzabile. Certo, su questa scelta la filologia non può che spalancare gli occhi, soprattutto perché sarebbe interessante analizzare i singoli frammenti alla luce dell'intera produzione o almeno capire con quale criterio sono stati riordinati i testi.
In ogni caso, va detto che, anche senza precisazioni temporali, l'opera resta qualcosa da leggere assolutamente, con un disco di Fabrizio in sottofondo, meglio ancora se un live. Ci si prepara così, e poi si ci immerge nella scrittura ora ironica, ora malinconica, ora speranzosa, ora cinica e detrattiva, ora acutissima, ora beffarda.
La varietà di temi è sicuramente uno dei punti di forza dei taccuini di De André, che vedono sempre nella scrittura una funzione eternatrice, un po' come la missione cantautorale («Noi cantastorie andiamo in giro sollevando la polvere dai fatti memorabili. Cerchiamo di farne mito, leggenda»), ben consci del potere delle parole, portate a spasso dalla musica («La musica per me continua a essere un tram per portare in giro le parole»).
A detta di De André, l'ispirazione dei suoi capolavori deriva dai ricordi, chiaramente filtrati dall'artista, che non è mai visto come un eroe, ma come una figura isolata, vittima (?) disincantata del mercato:
La mia scrittura si basa essenzialmente sui ricordi, o meglio sull'assemblaggio di memoria con dati del presente. E così, quando mi succede di ricordare, mi capita spesso di rivivere momento fortemente impressionati dagli idiomi, dai fonemi rimastimi impressi fin dall'infanzia, quando credo il novanta per cento degli italiani si esprimeva attraverso i dialetti locali.
Ma accanto alle logiche commerciali, a cui De André fa fatica ad adattarsi, c'è tutta la funzione «protomentale» della musica, la sensazione di sentire davvero la musica prima ancora che diventi un elemento razionale. Forse anche così si possono spiegare i tanti tentativi di filastrocche disinibite. O ancora, i tanti proverbi genovesi e alcuni detti sardi vengono scritti e tradotti con costante stupore per la grandezza della lingua e delle sue espressioni efficaci e perfette in quel contesto geografico e sociale.
Non mancano pensieri privati, universalizzabili e svincolati dal presente, perle di un sentimento che si parcellizza in dichiarazioni estemporanee, come la semplicissima, eppure struggente
Non mancano pensieri privati, universalizzabili e svincolati dal presente, perle di un sentimento che si parcellizza in dichiarazioni estemporanee, come la semplicissima, eppure struggente
Quando l'ansia di perderti si addolcì in sicurezza di averti.E accanto a tutto questo, il De André timido, pronto a mettersi costantemente in discussione, o anche solo ad agitarsi davanti allo sguardo dell'altro, o meglio, davanti all'ascolto dell'altro:
Preferisco di gran lunga un pubblico menefreghista, che magari chiacchiera o mangia panini, piuttosto che un pubblico immobile che sta a fissarmi con gli occhi sbarrati cogliendo ogni piccola goccia di sudore e ogni minimo tremolio della mano. Solo in mezzo a gente rilassata e distratta spero di abituarmi piano piano al contatto umano.
Non resta che un promemoria, che potremmo condividere ed estendere anche a tanti scrittori. Un promemoria per noi che li leggiamo e li interroghiamo, di continuo, sui perché. A volte, siamo noi a dover fare la (dolcissima) fatica di lasciarci trasportare e interpretare, senza assillare chi è fuggito dalla parola ad alta voce, per rifugiarsi nella pagina o nelle note:
Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell'opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell'opera.
GMGhioni