La
sumera
di Valentino Zeichen
Fazi
editore, 2015
pp. 155
euro
16.00 (cartaceo)
euro
9.99 (ebook)
La sumera di Valentino Zeichen è il
racconto di un miracolo laico, artistico e antico che si rinnova in un oggi
perpetuo, percorrendo il tragico mediante scorciatoie ironiche. Una storia che
è stata si aggira tra i ricordi contemporanei, pullulanti sia di tempo passato
sia di vita. Se il margine spaziale è il centro temporale, ne consegue un
flusso indistinto fra nostalgie irrisolte e fallimenti risolti nel disastro.
Non
si può leggere La sumera dimenticando
chi è l’autore: Valentino Zeichen è uomo di poesia, toccato dalla grazia del
ritmo e della musicalità.
Una
melodia si interseca nella prosa dell’opera, quasi come in una danza
magico-rituale mitica: e si sa, il mito imperfetto del Novecento, scevro di
corona e regno, si può incontrare ovunque e sempre.
Ne
La sumera la poesia si triplica: non una voce, ma tre persone che gravitano
intorno a figure retoriche, a misure metriche inusitate. Nascondere un metro
nella prosa è tipico dei grandi: si pensi alle ottave di Alberto Savinio o ai
novenari (ed endecasillabi) di Dino Buzzati, solo per citarne due.
Eppure
Zeichen fa qualcosa in più, tentando un esperimento possibile solo nell’oggi.
Mescolando il passato alla nostalgia del presente, crea continui cortocircuiti
che si placano nella fermezza marmorea di una prosa impassibile che, alla
Moravia, si astrae dal contenuto. Indifferenza della forma rispetto alla
materia: eppure la mano è la medesima. Ma in alcun punto si avverte la
scissione: forse perché essa è troppo presente. È questa incrinatura continua
che dà vita alla tensione narrativa, sempre in climax, sempre in agguato, pronta a esplodere in qualsiasi varco
lasciato, manieristicamente, aperto sul vuoto.
Un
romanzo che seduce: fattura che, in questa misura, è possibile solo all’interno
dell’accadimento poetico, inteso, però, come esperienza fenomenologica.
Rerum volgarium fragmenta intitola
Petrarca il suo Canzoniere. Rerum volgarium fragmenta potrebbe dire
Zeichen de La sumera. Laddove volgarium andrebbe a colorarsi di una
sfumatura tutta nuova, tutta zeicheniana. Ovvero quella di una noiosa
quotidianità, vissuta tra le quinte della Galleria d’Arte moderna e quelle di
via Flaminia.
Le gesta dei tre moschettieri che vivono immortali,
trasvolando di fantasia in fantasia nelle serie di
generazioni.
Chi avesse in mente di suggerire al loro orecchio il
da farsi,
o indagasse sul movente di quell’avventuroso agire,
non otterrebbe risposta, dovendo essi mantenere
segreti i
pensieri ed esplicite solo le azioni.
Zeichen
con la sua prosa mette al centro quello che nella poesia è versificato:
esplicita, cioè, le azioni dell’io, uno e trino, e cela i segreti dietro una
distanza calibrata (una e trina).
Sfaccettare
la prima persona permette la tridimensionalità: essa è una sperimentazione
tutta moderna, come lo scrivere un romanzo multifocale e nostalgico nel
presente. E non è un caso che Zeichen, per la prima volta, spalanca l’arte e la
penna a entrambe, contemporaneamente.
Convenne con se stesso che in genere aborriamo le novità perché gli strumenti per misurare i giudizi sono antiquati e quelli nuovi presto obsoleti, perché comprati ratealmente.
L’autore
de La sumera non aborrisce la novità,
anzi la guarda in faccia dalla marmorea convinzione che deriva dall’essere de facto e di diritto nel canone. In
questo modo si può permettere di non comprare nulla a rate, ma con un solo
colpo di penna, quella consacrazione tutta prosastica, eppure intessuta e
impregnata del sapore della poesia.
Zeichen
può mettere il proprio cappello su una generazione che ha perso l’incanto,
perché ha ripetutamente scoperchiato il vaso di Pandora: il cielo terso è
continuamente squarciato e continuamente ricostruito nella perfezione rarefatta
di un tempo che fu e non è.
Romanzo
del vacuo e del fallace, La sumera
mette in scena le angosce e i desideri, le nostalgie e le delusioni. Nessuna
pillola è indorata, anzi, inasprita pagina dopo pagina: sfogliando l’opera si
perde persino l’incanto magico della scrittura, sovrastata da una sensazione di
strappo irreparabile.
Come
Lucio Fontana, anche Zeichen metaforizza la rottura e la penetrazione: quello
strappo è un tentativo di restituire una forma umana, facendo rivivere le
monadi assolute che si stagliano sullo sfondo.
Ogni
taglio, avendo in sé un movimento in avanti e uno all’indietro, in direzioni
ostinate e contrarie, svuota, lacerandoli, convinzioni, ricordi, vissuti,
amicizie, per creare un circolo di moto virtuoso e ininterrotto, in un senso e
in quello opposto.
Zeichen
dà evidenza plastica alle oscillazioni – dentro/fuori, sì/no – contraddittorie
e dinamiche, eternamente votate al fallimento, ma eternamente nel flusso, con
la medesima forza che si sprigiona dal buio quando si è abbagliati dalla luce,
e dalla luce quando si è travolti dal buio.
Come
le forme uniche della continuità di Umberto Boccioni, La sumera si apre al movimento interiore ed esteriore, ma lo fissa
in un attimo eterno. Quello dell’arte.
È l’infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è alla base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuola capire. Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao… [Lucio Fontana]
Ilaria Batassa
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