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Febbre all'alba: una storia d'amore semplice, una fiaba all'ombra dell'Olocausto

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Febbre all'alba
di Péter Gárdos
Bompiani, novembre 2015, Milano

pp. 223
17 euro



A volte si incontrano storie tanto semplici, commoventi e luminose, che scriverne rischia di diventare un errore; si ha il timore di complicare qualcosa che è già perfetto, dove complicare diventa sinonimo di imbruttire, deturpare qualcosa di compiuto.
È questo il caso di Febbre all’alba, primo romanzo (biografico) del regista ungherese Péter Gárdos, il racconto di un incontro di due anime buone e del loro amore, originato dalla più grande delle tragedie umane, l’Olocausto, e durato cinquantadue anni.
Una storia vera, perché Gárdos ripercorre, narrandola con delicatezza e levità, la nascita dell'amore tra i suoi genitori.
Un romanzo che ha il grande pregio di soffermarsi su un aspetto laterale della guerra, poco battuto, ma non per questo marginale o meno interessante: le ferite nello spirito di chi è rimasto; le lacerazioni psicologiche subite dai sopravvissuti di quell’immane dramma; il cammino verso la riscoperta della felicità e di sé stessi come individui, dopo anni in cui la propria identità è stata sepolta sotto un numero tatuato su un braccio.

Anche l’ambientazione è inedita: la Svezia dei campi sanitari che accolsero migliaia di reduci dai campi di concentramento, compresi Miklós e Lili, i protagonisti di questa storia. Un storia piccola e straordinaria, che ha il sapore di sentimenti universali: amore, rabbia, dolore, amicizia, invidia, riscatto.

Miklós è un giovane ebreo ungherese dalla fervente fede socialista, gravemente ammalato di tubercolosi, che da Lubecca giunge in Svezia, a Stoccolma, per essere curato. Con lui, sul traghetto, altri duecentoventiquattro malati gravi. Pesa quarantasette chili, Miklós. Sputa sangue e, durante il trasporto, sono costretti ad aspirargli il liquido dai polmoni, per scongiurare il peggio.
Miklós sta invero morendo: gli rimangono sei mesi di vita, come gli spiega il dottor Lindholm, primario dell’ospedale dove viene ricoverato. Ma ha un progetto, un obiettivo ambizioso, che si proietta ben oltre quella manciata di settimane che, secondo i medici, sono il suo unico possibile orizzonte.
 “Mi ha frainteso. Io sto cercando moglie. Vorrei sposarmi.”Spiegò mio padre, battendo le palpebre, con il sorriso sulle labbra. L’aveva detto, finalmente. Si appoggiò allo schienale e attese la reazione.Il primario corrugò la fronte.“Non avrò saputo esprimermi bene in ungherese. Lei ha circa sei mesi di vita. Questo è il tempo che le rimane, Miklós.”“L’ho capito perfettamente, signor primario.”
Cerca moglie, Miklós. La vuole ungherese, di Debrecen, sua città natale. Giovane e disponibile a iniziare un amore per corrispondenza. Perché è così che conosce Lili, con una lettera. Una lettera uguale ad altre centosedici, a dire il vero, perché Miklós scrive a tutte le giovani donne di Debrecen ricoverate in Svezia. Ma è Lili, tra tutte quelle che risponderanno, a conquistare la sua attenzione e il suo cuore.
È così che inizia un amore epistolare, delicato e intenso, che si snoda nell’arco di molti mesi, alimentato solo da centinaia di scritti, qualche telefonata e un unico incontro.

Leggendo Febbre all’alba, sono tre i filoni narrativi che possono essere seguiti: l’amicizia; l’amore; la fede.
La fede, quella incrollabile e quella traballante: Miklós ha due profonde convinzioni, radicali certezze che derivano, forse, da ciò che ha vissuto nel campo di concentramento. La fede socialista, protagonista di tante piccole scene divertenti, in cui Miklós tenta di persuadere Lili ad abbracciarla a sua volta, con una tenacia e una solennità che fanno sorridere; e la fede nella sua guarigione: a dispetto di tutto, delle parole dei medici, delle radiografie ai polmoni che recidono ogni speranza. Miklós crede, crede fermamente che guarirà; e sposerà Lili, ne è certo. Torneranno in Ungheria e troverà lavoro in un giornale socialista.
Si finisce per amare questo fragile ebreo ungherese, che non arriva a sfiorare i cinquanta chili, con i denti di lega, i polmoni pieni di liquido e una lieve febbriciattola costante, che gli fa visita ogni giorno, all’alba. Lo si ama per il suo ottimismo irrazionale, per il suo amore limpido, per quella fiducia nel futuro che niente riesce a mettere in discussione, neanche la morte, che pure gli si presenta di fronte più volte, spietata.

Ma al centro del romanzo c’è anche la fede religiosa, più sofferta e minata nelle sue fondamenta: Lili non riesce più a credere in un Dio che ha permesso tanta disumanità, tanta violenza; desidera voltargli le spalle, desidera convertirsi al cristianesimo, sperando di seppellire, insieme alla fede ebraica, il dolore della persecuzione che quel Dio, ai suoi occhi, ha reso possibile.
“Ascoltami, Lili. Tutti noi nutriamo dei dubbi. Piccoli e grandi. Ma non possono giustificare un voltafaccia.”Lili diede un colpo al tavolo e l’orologio da taschino fece un balzo, come se fosse stato una palla di gomma. “Lei c’era? Ha viaggiato con noi? Era con noi nel vagone?” (…)“Non voglio insultarti dicendo che è stata una prova. No, non oserei dirlo, dopo tutto quello che hai passato. Dio ti ha smarrita, va bene. (…) Ma sono morti milioni di tuoi fratelli! Ne hanno uccisi milioni come bestie al macello. (…) Ma porca miseria, questi milioni di morti non si sono ancora raffreddati! Non abbiamo ancora finito di recitare la preghiera per loro! E tu già ci abbandoni? Ci volti le spalle? Non essere giusta con Dio, lui non se lo merita! Sii giusta con quei milioni! Non puoi rinnegarli!”
L’amicizia, declinata in ogni sua sfumatura, nobile e meno nobile, è l’altra grande protagonista del romanzo. Come se, dopo tutto l’orrore, l’umanità si accentui nell’essere umano: la solidarietà, la fratellanza, il legame forte tra individui che hanno condiviso il medesimo durissimo percorso.
Come in una moderna fiaba, possiamo leggere “Febbre all’alba” attraverso il celebre schema di Propp: Harry per Miklós e Sara per Lili rappresentano gli aiutanti dei protagonisti, coloro che stanno al fianco degli eroi nella realizzazione del loro sogno, il matrimonio. All’opposto, troviamo Judit Gold, l’antagonista, che per invidia verso l’amica Lili e la sua felicità, tenta ogni strada per ostacolare i progetti della coppia. E non è un caso che, a differenza di tutti gli altri personaggi, Judit venga sempre nominata col suo nome completo, comprensivo di cognome, quasi a voler mettere una decisiva distanza tra lei e il lettore.

È in questa atmosfera da fiaba che noi lettori finiamo per tifare col cuore per la coppia Lili-Miklós, a dispetto di ogni ragionevole dubbio, a dispetto perfino di quella sentenza lapidaria dei medici. E la realizzazione del loro amore nel matrimonio diviene ai nostri occhi una piccola storia di riscatto che getta una luce bianca e pura sul buio insozzato della Storia.

Barbara Merendoni