di Bruno Arpaia
Guanda, 2016
pp. 222
€ 16 (cartaceo)
«In qualche modo, anche l'Io è un'invenzione del nostro cervello, anzi, è la sua migliore invenzione, la sua storia più di successo, diciamo il suo bestseller... [...] Quando raccontiamo a qualcuno la nostra vita, quando la ricordiamo, dovremmo sempre far scorrere sulla nostra fronte la scritta: "Questa storia che racconto su me stesso è solo tratta da una storia vera. Sono in larga parte io stesso un frutto della mia immaginazione". Insomma, siamo voci di corridoio, racconti inattendibili, finzioni...»
«E allora» disse Marta, scuotendosi all'improvviso, «non ha senso stare qui a macerarsi... Basta con quella faccia. Dài, balliamo...»
Si alzò di scatto, gli tese una mano e aspettò. Di colpo, sotto gli occhi lucidi, come lo schianto di un vetro rotto, le era spuntato un sorriso malizioso. E lui, alla fine, ci si aggrappò come se quella mano e quel sorriso fossero l'ultimo appiglio che gli restava al mondo.
(pp. 97-98)
C'era da aspettarsi che un evento epocale come la conferenza internazionale sul clima di Parigi dello scorso inverno andasse a stimolare anche la fantasia degli scrittori. Perché il tanto discutere di gas serra e surriscaldamento globale ha riportato sulla bocca di tutti una delle domande più note dei romanzi distopici: cosa accadrà, se continueremo a surriscaldare il pianeta?
L'idea che sviluppa Arpaia, sulla scorta di documentazioni approfondite (di cui dà conto in fondo al libro) non prevede un'apocalisse improvvisa, né una deflagrazione atomica o una guerra mondiale per acqua e cibo. No, vede l'impoverimento sempre più grave del nostro mondo, progressivamente desertificato e inospitale. I protagonisti del romanzo, il professore Livio e i suoi compagni di viaggio, si muovono lungo un'Italia dalla geografia distorta, quasi senza cibo e acqua a disposizione. A lungo nella narrazione non si capisce quale sia la meta del viaggio, né quali speranze muovano il gruppo, che progressivamente si riduce. Vi è un'angoscia crescente, a mano a mano che i viaggiatori scoprono con sgomento il cambiamento anche di questa o quella zona: non bastano le storie di Aziz a calmare gli animi (forse solo i più piccoli si lasciano trasportare), né l'avvenenza di Marta, ex studentessa di Livio, fintanto che il mondo resisteva.
Una terribile spada di Damocle naturale pare gravare sulla testa di tutti i presenti, che cercano (ovviamente) la salvezza riscoprendo uno dei più atavici imperativi dell'uomo: sopravvivere, in qualsiasi modo. E lungo il percorso disagevole, ecco che affiorano anche ricordi altrettanto puntuti e amari, che riportano Livio alla memoria della sua vita familiare, con la moglie Leila e il figlio. La nostalgia e il rimorso sono l'imperativo categorico di tutti i presenti: oltre ai dispiaceri personali, anche il clima diventa argomento di conversazione, con quel perenne "come abbiamo fatto a non accorgercene?!". Certo, a volte questo permette di aprire parentesi e dissertazioni sul clima che non hanno nulla di narrativo, ma fanno virare (anche improvvisamente) verso un approccio saggistico, che talvolta nuoce al ritmo del romanzo. Ma è piuttosto chiaro l'obiettivo di Arpaia, che non teme nemmeno di "saccheggiare" la letteratura distopica con scene, ambientazioni, riprese più o meno libere. Dicevo: l'obiettivo è chiaro, ed è quello della denuncia ecologica, perché anche noi, leggendo, prendiamo atto del rischio sempre più evidente che costringe il nostro pianeta a cercare di ritrovare un equilibrio che, a causa nostra, viene continuamente alterato e rotto.
GMGhioni
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