Quando penso alle più grandi madri della letteratura, penso a Ida Ramundo de La Storia di Elsa Morante (Einaudi, 1974). Una maestra elementare, vedova, ebrea nella Roma occupata della seconda guerra mondiale.
È commovente il modo con cui ci viene presentata, con quel "corpo denutrito e informe", l'aspetto sfiorito, il cappotto e il cappello ormai consunti. Una figura femminile del tutto anonima che non riesce a nascondere i capelli già ingrigiti ma conserva una "faccia da bambina".
È madre di Nino, adolescente ribelle trasportato come foglia nel vento inquieto delle trasformazioni politiche. Mite e indifesa, non riesce a fermare un giovane soldato tedesco che la violenta in un accesso di rabbia malinconica.
Quella sera di violenza le regala Useppe, un amore così grande da toglierle il respiro, un segreto da proteggere a costo della vita.
Quello che più amo di Ida Ramundo è la sua maternità primordiale, originaria: pur essendo la rappresentazione di un momento storico - una figura che parla di occupazione straniera, guerra, fame, Meridione - è un personaggio pre-storico. Ida è istinto come istinti sono la paura e l'amore, una madre che invecchia prima del tempo, che incarna in una sola le vite di mille madri.
Ida è donna perché è madre, è maestra perché è madre: ogni sua azione è un gesto materno, di dono, di vita. Le vite di Nino e Useppe le vengono strappate e con esse viene via ogni significato di resistenza. Persi i suoi figli, diventa folle.
Ida nuota per tutto il tempo in un senso contrario all'onda degli eventi ma alla fine ne viene risucchiata, vittima come Carulì, Davide-Carlo e gli ebrei del ghetto, della Storia, della sua violenza cieca che travolge offendendo ed estirpando ogni possibilità di progresso.
Eppure non è solo una vittima del mondo: lei incarna la forza di un legame di sangue impossibile da spiegare e da dire. Un amore ineffabile alla maniera di Dante che davanti alla visio mystica ha perso le parole.
È vero che come ha scritto Elsa Morante la storia è "uno scandalo che dura da diecimila anni", ma le madri sono un veicolo di amore che supera ogni tempo.
Useppe levò gli occhi in alto, e disse: “Lioplani”. E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato in una mitraglia di frammenti. “Useppe! Useppee, !” urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: “Mà sto qui”, le rispose all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo […) Intanto, era cominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pattini, su un terreno rimosso che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalle sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo. Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva verso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi ch’era incolume. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione. […] Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e soprapensiero. “Non è niente”, essa gli disse, “Non aver paura. Non è niente”.
Claudia Consoli
Social Network