Neo. Editore, 2016
pp. 160
Franco Scelsit è un uomo di mezza età, scampato a un infarto che gli ha lasciato in eredità un periodo di sospesa e consolatoria convalescenza nonché la consapevolezza di un attaccamento alla vita sorprendente e quasi scomodo. L'antieroe ideato da Krauspenhaar è infatti divorato da un'altra malattia, quella del nulla che erode le sue giornate: scrittore dal talento incompreso, o almeno tale si reputa, mette da parte gli scritti che lo rappresentano in cambio della sicurezza economica, rappresentata dal suo “editore da autogrill”, uomo dal dubbio gusto che gli commissiona un ciclo di romanzi thriller destinati a palati poco raffinati. Scelsit si fodera di pelo lo stomaco e acconsente a inventare l'eroe Stan Dolero convertendo così la professione libera per eccellenza, quella dello scrittore, in un abisso di mediocrità:
“Cominciai a scrivere i miei romanzi d'appendicite peritoneale. Roba da incartarci il salame e le salsicce umbre. Alta classe, sì, ma da zero in ricevuta fiscale. E da poco, al saldo in nero. Così, l'anno scorso, a quasi cinquant'anni, m'è capitata questa occasione di scrivere sotto falso nome una serie di gialli da rapina. Roba per uno di quegli editori da autogrill col pelo sullo stomaco. Santiloni è l'editore di questi fogliacci. Mi ha fatto un contratto per questi romanzi. Carta da culo ciclostilata in risme da 180 pagine l'una. Ho una certa libertà, in verità. Posso giostrarmi la cosa ma non devo mai scendere sotto le 140. Il poliziotto si chiama Stan Dolero. All'atto della stipula, mi era venuto in mente Il bandolero stanco di Renato Rascel. È colpa della mia profonda cultura (dall'estremamente basso all'estremamente alto) se il mio cervello profonde in smanie continue. Dunque, Stan Dolero: italoamericano, il fisico tappato di Edward G. Robinson, la follia di Paul Muni, la criminalità perversa di Peter Lorre. Un concentrato degli eroi di Howard Hawks ambientato oggi. Scrivo in due settimane Spettinato dalla pazzia, 152 pagine. Consegno a Santiloni. Il libro esce a giugno del 2009, periodo depressivo editorialmente parlando. Diventa un classico dell'ombrellone, noto e unico maître à penser – l'ombrellone dico – dell'estate italiana.
Quasi un patto col diavolo: di certo, la rinuncia a conservare e valorizzare quel poco di genuino e salvifico che nell'essere umano Scelsit permane. E una panoramica sul mondo della cultura e dell'editoria italiana da far rizzare i capelli in capo. Non di meno, seppure sovente descritto ricorrendo ai mezzi del sarcasmo e dell'ironia, uno scenario che ben aderisce al reale. Scenario a cui specularmente si affianca e si sovrappone quello della quotidianità del protagonista: incastrato in una vita familiare (che condivide con sua madre, “il colonnello”, e suo fratello) che non desidera ma di cui si è reso volontariamente schiavo, egli percorre una Milano che il sole di una primavera precoce rende persino più insopportabile, le sue giornate sono costellate dagli appuntamenti col gruppo degli altri infartuati conosciuti in ospedale, dalla frequentazione di donne “inconsistenti”, che aggiungono vuoto al vuoto e dalla passione per le macchine sportive su cui fare folli corse durante le ore notturne. Di fatto Scelsit appare come un aspirante suicida spaventato e attratto da quella morte il cui soffio ha sentito troppo vicino durante quel fatidico attacco di cuore. La vita, o quel che ne rimane, ha le sembianze di un insieme di ossessioni coltivate in solitudine e diviene efficace strumento di autopersecuzione: Scelsit decide di non scegliere e quindi si avvelena di birra, s'intossica di rapporti sbagliati, di sesso dal consumo rapido, di sogni lasciati marcire. Ogni volta che ha la possibilità di fare qualcosa per sé, di cambiare il corso della propria esistenza, si disfa di quell'opportunità, ritornando al punto di partenza. In questo senso il libro di Franz Krauspenhaar è un antiromanzo: nel suo attorcigliarsi su se stesso, nel tracciare possibili percorsi da intraprendere che resteranno lì a formare l'intreccio dei futuri mai realizzati.
Scelsit è lo specchio di un'Italia frutto di un'amnesia collettiva, che non ha saputo fare tesoro delle cattive esperienze politiche che ne hanno messo in crisi stato sociale e culturale e che ha lasciato i suoi figli a parlare attraverso soliloqui e a muoversi verso orizzonti deserti. È convinto del proprio talento letterario, che però sperpera in cattiva scrittura in virtù di un migliore conto in banca; è uomo d'esperienza nonostante ogni tanto abbia bisogno di farlo presente a se stesso, è orfano di un passato culturale rimpianto eppure calpestato nella resa incondizionata a un presente osceno. Inoltre, non riesce a venire a patti con un vissuto lacerato dall'abbandono del padre, il cui fantasma acquisisce le grottesche sembianze di uomo-lepre in fuga, che gli taglia la strada una notte e che riapparirà in altre occasioni: nel suo stagliarsi contro uno sfondo popolato di bar e ospedalini, di “cardiopizze”, alberghetti e squallide telefonate con l'ancor più squallido Santiloni, costituisce probabilmente una delle immagini più riuscite del romanzo:
“Ti batte ancora il cuore, anche se tuo padre è sparito nella nebbia come un fantasma. Dicono che non esistano gli spettri. Ma io li vedo da sempre, senza alcuna paura. Sono intorno a noi. Ho visto mio padre correre nella bruma della campagna lombarda. Si produceva in ampie falcate, mentre io, per un attimo, gli ho tagliato il corpo con la luce dei fari. L'ho colto nel suo saltare di lepre enorme nell'erba gelata. L'ho visto andare verso la tana, come un animale senza più voce, un animale libero nella natura e nell'anima.”
Forse è l'abominio del presente, forse la supina rinuncia a quei possibili futuri in grado di scardinarlo a spingere il protagonista del libro di Krauspenhaar nelle lande prima, del proprio passato, poi, nei paralleli presenti di individui che non conosce, ma di cui può vivere, per lassi di tempo più o meno brevi, frammenti delle loro esistenze.
Dopotutto, per dirla con Calvino:
“Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.”
E così la macchina narrativa stringe il proprio cappio intorno a uno Scelsit condannato dalla propria psicosi a una sempre maggiore immobilità a cui fanno da contraltare i paralleli viaggi astrali, un'immobilità che paradossalmente si traduce in un massimo di dinamicità. L'uomo incapace di lasciare quella Milano che, volente o nolente, ha finito per essere la sua rassicurante prigione, finisce per trovare una via di fuga da se stesso in se stesso.
A Grandi momenti vanno riconosciuti diversi meriti, a cominciare da certi passaggi d'inaspettato lirismo a squarciare la corazza del linguaggio della quotidianità che, origliando il parlato, accoglie tra i propri detriti volgarismi e regionalismi, oltre a farsi portavoce di un cinismo dolorosamente – e a volte comicamente – consono a farsi specchio del reale.
C'è l'encomiabile vocazione all'abbandono degli atteggiamenti abituali e stereotipati nella progettazione dell'oggetto romanzo e un finale buzzatiano che delizierà molti lettori. In più punti però, si ha la sensazione che nel perseguire questi risultati l'autore abbia sacrificato il ritmo. O meglio: che nell'identificarsi con il ritmo scelto abbia dimenticato di tradirlo nella misura sufficiente a ottenere una significativa presa emotiva sul lettore. Fatto, quest'ultimo, che colpisce particolarmente trattandosi di un romanzo in cui l'io narrante è quello di uno scrittore che fa della paraletteratura il proprio mestiere: uno dei più grandi regali che alcuna (buona) paraletteratura ha fatto al mondo letterario tutto è proprio quello di una scorrevolezza atta a oliare gli ingranaggi finalizzati alla costruzione di una tensione narrativa o, molto più banalmente, a non far staccare al lettore lo sguardo dalla pagina.