di Luke Rhinehart
Marcos y Marcos, 2016
pp. 688
12 €
Tira il dado. Il dado sceglie per te. Tu non hai colpa, non hai responsabilità. Hai affidato tutto il potere al dado e non c'è modo di tornare indietro. La parabola paranoide, folle, eccitante di Lucius Rhinehart parte dal momento in cui decide, quello sì l'unico momento conscio e responsabile, di voler affidare a un banale dado da gioco a sei facce la scelta di ogni sua prossima mossa. In principio, piccole azioni senza importanza. Luke fa lo psicanalista, è un uomo solido, quel che si direbbe un professionista affermato, ha una famiglia; eppure la seduzione costituita dall'ignoto, il baratro estatico dell'inconsapevolezza, l'irrazionalità scelta per convinzione hanno la meglio sulla ripetizione della quotidianità che tranquillizza e soffoca. E il lancio dei dadi diventa il più serio di tutti i giochi. La storia ce la racconta lo stesso Rhinehart ne L'uomo dei dadi, pubblicato qualche anno fa da Marcos y Marcos nella traduzione di Marina Valente e oggi ristampato in versione Mini. È davvero un libro tascabile, una sorta di breviario che rimane con te per circa 700 minipagine e che ti risucchia irresistibilmente nell'abisso della tecnica della dispersione del sé.
Si può essere affascinati da questo metodo di autosabotaggio, di sperpero creativo. È esaltante leggere la storia di un uomo che perde i freni, che si lascia andare prima al fondo del proprio ego e poi si lancia in un progetto folle, quello di fare della sua idea un modello terapeutico, fino ad aprire dei Centri di sperimentazione in ambienti totalmente casuali che liberino i clienti dal “fardello dell'identità individuale” e che diventano presto celebri come luoghi di estrema depravazione.
Nel luglio del 2015 un illustre fan del dottor Rhinehart, Emmanuel Carrère, ha scritto su Internazionale un lungo reportage in cui, nella tecnica dell'autofiction di cui è maestro, racconta di essersi spinto fino alla dimora dell'idolo; e di averci trovato un tranquillo signore che risponde al nome di George Cockcroft, vive in una fattoria a Hudson, a nord dello stato di New York, e si definisce an old fart, un vecchio rimbecillito.
Una delusione? Come nei racconti migliori, in fondo non importa se sia accaduto veramente. È l'immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un'utopia negativa, che è nel senso della distruzione, dell'annullamento, e non in quello della costruzione, possibilmente pacifica. Un progetto in cui i principi vengono annullati, negati ed è il Caso il dio supremo delle occasioni perse o afferrate al volo: come si può a queste condizioni costruire una struttura sociale il cui tranquillante dovrebbe essere un metodo disciplinato?
Una delusione? Come nei racconti migliori, in fondo non importa se sia accaduto veramente. È l'immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un'utopia negativa, che è nel senso della distruzione, dell'annullamento, e non in quello della costruzione, possibilmente pacifica. Un progetto in cui i principi vengono annullati, negati ed è il Caso il dio supremo delle occasioni perse o afferrate al volo: come si può a queste condizioni costruire una struttura sociale il cui tranquillante dovrebbe essere un metodo disciplinato?
L'uomo dei dadi è un racconto antropologicamente trascinante, denso di psicologia e filosofia. Gli orientamenti ce l'abbiamo in esergo: si parte dalla psichiatria, da Van der Berg, da Jung, e passando dal filosofo cinese Chuang-tzu, si arriva a Nietzsche. Ma l'ultima, prestigiosissima posizione, è per il comandamento supremo: «Chiunque può essere chiunque». È volontà di (auto)distruzione e disperato vitalismo, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.
Giulia Marziali