Come si fa ad eleggere una figura a ruolo centrale nel proprio sistema di valori, per renderla baricentro di tutto il proprio piccolo/grande cosmo metaletteraria? Principalmente in due modi, diversi ed opposti, come in uno di quegli assiomi che la scienza esatta per eccellenza, ovvero la matematica (o, per meglio dire, l'aritmetica) che ci si parano davanti lucenti e dorati nella loro accettabilità quasi religiosa: o la si ama o la si odia, anzi la si uccide. E la storia della letteratura è piena di esempi in questi sensi. Anche per le madri anzi per la madre dato che questa figura può essere declinata solo ed esclusivamente al singolare.
La donna e la seduzione è centrale nel mondo di Flaubert? Ecco che la sua figura più riuscita, Emma Bovary, protagonista de Madame Bovary, viene tratta rudemente dal suo autore: descritta come lasciva, sempre in preda agli umori e agli amori, viene "uccisa" in un modo tanto maldestro e crudele da chiedersi se lo stesso Flaubert non abbia avuto delle derive masochiste in questo senso. Oppure, per andare avanti con i nostri esempi, come fare a non sostenere che il tipo del bel giovane ora biondo ora moro sempre e comunque pallidissimo sia una delle figure più amate/usate da Thomas Mann: da Kröger ai Buddenbrook fatevi due conti ma è così.
Tuttavia visto che oggi è la festa delle mamma, banalmente, occorre parlare del più stretto legame parentale: quello tra la madre, giustappunto e il figlio. E allora, direte voi, qui si parlerà di Marcel Proust che sulla e della poetica della madre ha ragionato, scritto e filosofeggiato come un sapiente d'oriente, dall'attesa del bacio che, anche a tarda età, "libera il sonno" dalle inquietudini del giorno e della notte al continuo ripensare a lei. No, niente affatto. Oggi per celebrare la madre parliamo di uno scrittore che ha ucciso, metaforicamente e dal punto di vista letterario, la sua di madre. Anzi ha fatto, ragionevolmente, uccidere la propria madre dal protagonista di uno dei più celebrati, a giusta ragione, romanzi del Novecento italiano: questo romanzo è La cognizione del dolore e il nome dell'autore è, naturalmente, Carlo Emilio Gadda.
In una Brianza travestita, anche a livello linguistico, da Paese sudamericano di inizio secolo si assiste ad una vicenda paradossale: il dottor Felipe Higueróa si trova, un po' suo malgrado, ad indagare su una torbida storia famigliare di un rapporto degenere tra madre e figlio. Il figlio, protagonista del romanzo e alter ego dello stesso Gadda, Gonzalo Pirobutirro, il figlio quasi per antonomasia nella poetica gaddiana, è una sorta di mangiatore seriale, fannullone e nullafacente che passa la propria vita ad ingozzarsi di piatti da vero gourmet ed a tartassare la povera madre.
Gonzalo, interpellato dal dottor Felipe a proposito di un fatto di "scambio di identità", si lascia ben presto andare ad uno dei più fantasmagorici sfoghi intellettuali che le nostre lettere abbiano conosciuto. Gonzalo odia ed ama la madre: la odia perché è apprensiva, come quasi tutte le madri tra l'altro, non gli permette di crescere nel modo corretto e, quasi in opposizione a ciò, odia tutti gli altri, perché interferiscono nel rapporto privilegiato madre-figlio. Un giorno, verso la fine del romanzo, comunque incompiuto, si troverà la stessa madre, in fin di vita, con la testa spezzata. E tutti i sospetti saranno per Gonzalo...
Ma ora starete dicendo "Come è possibile che per la festa della madre si racconti una storia di, sostanzialmente, un matricidio?". Il quesito è giusto e, si spera, lo sarà anche la risposta. Perché la forza libresca che Gadda mette nell'inscenare la vicenda (ricordiamo la forza catartica delle arti) è impressionante e sembra scaturire da un ragionamento profondo, molto intimo che travalica lo stesso dato letterario.
Infatti, se uno va a leggere l'autobiografia dello scrittore lombardo, scoprirà che il rapporto, quello vero, tra la madre di Gadda e Gadda-figlio fu burrascoso, pieno di liti e di fraintendimenti. Troppo piccolo-borghese, attaccata alle "piccole cose di pessimo gusto" e conformista questa donna per andare a genio (è il caso di usare questo termine) al figlio che però, nel suo primo romanzo più o meno completo, la mette al centro della scena, in qualche senso.
Come gli innamorati, specialmente quelli delusi, sanno la più grande dichiarazione d'affetto e il prorogarsi di una persona anche quando essa non è fisicamente presente: nei pensieri, nelle situazioni e nei gesti. Odiandola e uccidendola in un libro, Gadda ha amato intensamente sua madre, come forse non seppe mai farlo dal vero.
Camminava tra i vivi. Andava i cammini degli uomini. Il primo suo figlio [...] in una lunga e immedicabile oscurazione di tutto l'essere, nella fatica della mente, e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei mercanti, sotto la strizione dei doveri ch'essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti. Ed era ora il figlio: il solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le sere ed i treni. Il suo figlio primo. [...] Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall'inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non eran scemati d'altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d'abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell'eternità.