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#CriticARTe - Nostalgie minimaliste: Hopper a Bologna

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Edward Hopper
25 marzo 2016 - 24 luglio 2016

Palazzo Fava / Palazzo delle Esposizioni (Bologna)
Orario: lunedì-domenica, 10.00 – 20.00;
Biglietti: 13,00 € intero; 11,00 € ridotto.



Palazzo Fava, Bologna. Una coda mormorante e moderatamente impaziente aspetta di visitare la mostra di Edward Hopper (1882-1967): la locandina promette più di sessanta tra oli, acquarelli e disegni provenienti direttamente per l'occasione dal Whitney Museum di New York. Le aspettative sono alte, ma sussiste il timore che – come troppo spesso accade – il nome di un artista famoso e amato venga utilizzato come specchietto per le allodole, come pretesto per schierare una serie di opere minori o realizzate da poco noti pittori coevi. Non è così: si entra sospettosi, si esce appagati (forse un po' dispiaciuti che un incontro tanto intenso con l’autore sia già terminato).

L'allestimento si dimostra fin da subito semplice e onesto: poca retorica e tanti fatti. I pannelli esplicativi sono chiari ed essenziali, fedeli allo stile pittorico che vogliono descrivere. I quadri sono disposti in base a un criterio sostanzialmente cronologico, con alcuni spot tematici che consentono di conoscere meglio l'autore e le peculiarità della sua arte. I curatori hanno il coraggio di farsi da parte e lasciano parlare Hopper stesso, attraverso la pastosità del suo colore, l'eloquenza del suo tratto, le esplicite dichiarazioni d'intenti. Il percorso espositivo è progressivo, centellina le informazioni, per consentire allo spettatore di crescere insieme all'artista, di maturare con lui, di accompagnarlo nelle sue peregrinazioni europee e successivamente nel suo reinserimento americano. Si cambia, passeggiando per le sale, così come è cambiato il pittore. Ci si lascia affascinare dal suo sguardo traverso e dimesso sulla realtà, dalla sua capacità di attingere dal passato per creare qualcosa di radicalmente nuovo. L’impressionismo conosciuto in Francia lascia la sua impronta e viene riproposto all’insegna di una nostalgia indefinita per qualcosa che ci si è lasciati alle spalle. Grande interprete del paesaggio europeo quanto di quello americano, Edward Hopper si lascia tentare dalla malinconia delle periferie urbane, come dalla desolazione degli spazi agresti in cui la civiltà incontra e cede il passo alla natura ancora incontaminata. La sua pittura appare concreta e metafisica al tempo stesso: le architetture si fanno specchio dell'umano, della sua dignità, della sua solitudine. Attraverso la semplificazione e l’essenzialità delle forme, attraverso il sistematico ricorso alle costruzioni geometriche e all’armonizzazione delle linee, l’artista vuole complicare il messaggio, indurre ad una contemplazione riflessiva. 

"All I ever wanted to do was to paint sunlight on the side of a house", scriveva Edward Hopper, denunciando il suo amore per la luce e le ombre, per la chiarezza compositiva, per l’ordine e l’equilibrio tra le varie componenti dell’opera. L’abilità del pittore fa sì che non ci sia monotonia nei quadri, che non ci sia noia, nonostante il ricorrere dei soggetti più cari. Gli edifici e le figure vengono creati grazie alla contrapposizione di dense campiture cromatiche e sembrano imporsi quasi prepotentemente alla vista nel delicato sfumare di un orizzonte sempre troppo piatto.

In un panorama che sembra di primo acchito povero di esseri umani, l’uomo è in realtà protagonista, per il segno che lascia nel mondo, ma soprattutto perché del mondo egli si fa primario interprete; non è un caso che, nei quadri di Hopper, i personaggi difficilmente siano ritratti frontalmente: molto più spesso guardano qualcosa o qualcuno, talora il paesaggio, talora una presenza misteriosa e solo ipotizzata al di fuori della cornice. I loro occhi anticipano quelli dello spettatore, gli indicano la via. Penso, tra i molteplici esempi possibili, al languido fulgore di South Carolina Morning (1955) o all’immediatezza di un’acquaforte giovanile meno nota, Evening Wind (1921). La forza di questi e altri lavori risiede nel potere evocativo dell’immagine, ma anche nella presenza di straordinarie figure femminili, in grado di esprimere sensualità e ritrosia al tempo stesso. Solitamente superate nella fama dell’artista dai motel abbandonati e dai diner in procinto di chiudere, le donne di Hopper rappresentano una scoperta inaspettata e sorprendente: ci dicono di più sull’amore dell’artista per la moglie, per la vita, per la dimensione fisica (oltre che metafisica) dell’esistenza individuale. 

Dalla mostra di Bologna si esce avvinti, conquistati. Si ha voglia di parlare con qualcuno di ciò che si è visto, di confrontare ad alta voce le aspettative e la realtà, di ripetere i dettagli prediletti per inciderli nella memoria. Si vorrebbe pure appendere un Hopper in salotto, ma quella è un’altra storia. Si vorrebbe, soprattutto, tornare dentro. Per questo è necessario consigliare la mostra anche a chi non ci è ancora stato: a chi conosce l’artista e ha voglia di rivederne le opere senza fare troppa strada, e a chi non lo conosce e desidera lasciarsi accompagnare in un percorso studiato e intelligente alla scoperta della sua produzione.  

Carolina Pernigo