di Wu Ming
Einaudi, 2007
pp. 613
€ 17,50
1755. William Johnson, inglese, combatte con i Mohawk contro i
Caughnawaga. Inglesi contro francesi, indiani contro indiani.
Vent’anni dopo, i suoi eredi, latifondisti e facenti parte del
Dipartimento Indiano, istituzione che regola i rapporti coi
pellerossa cercando di stabilire leggi e regole per una convivenza
pacifica (che urta le sensibilità di tanti), difendono l’autorità
di Sua Maestà contro i coloni che vogliono l’indipendenza
dall’Inghilterra. Sin dall’inizio del romanzo le cose non stanno
come ce le saremmo aspettate aprendo un libro ambientato all’epoca
della nascita degli Stati Uniti d’America: non c’è solo il
conflitto tra indiani e bianchi, quello classico che ci è stato
sempre raccontato; lo schieramento occidentale è frammentato al suo
interno, ed anche l’universo indiano è tutt’altro che omogeneo:
alcuni stanno con gli inglesi, altri li combattono.
Scontri a fuoco e a colpi di tomahawk, battaglie feroci e intimi
sentimenti, uomini impauriti e donne fiere e coraggiose, i boschi
americani e i palazzi londinesi, filosofi europei e riti tribali:
Manituana è tutto questo e molto altro, è un’immensa
teoria di fatti storici e personaggi, nella quale il lettore rischia
di perdersi. D’altronde le semplificazioni sarebbero deleterie e
non permetterebbero di cogliere la complessità del momento storico
descritto dai Wu Ming. Complessità che è anche confusione,
miscuglio: dalla prosa del collettivo di scrittori esce
un’America davvero meticcia, fatta di culture ibride, una nazione
dove si pregano assieme le Tre Sorelle e i santi cristiani, dove le
persone hanno sia nomi inglesi che Mohawk. Joseph Brant è l’emblema
di tutto ciò, non solo perché è un indiano cresciuto coi bianchi,
ma perché nel suo ruolo di interprete deve costantemente mettere in
contatto due lingue e due culture diverse, unendole in un obiettivo
comune che tenga conto tanto delle differenze e delle sfumature
lessicali quanto di quelle pratiche. Per gli indiani, ad esempio, un
conto è difendere le Sei Nazioni (il territorio dove vivono i
pellerossa) dai coloni ribelli, un altro è combattere questi ultimi
per proteggere il Canada, minacciato dalla rivolta che sta crescendo
nel Massachusetts; i Tories, tra i quali i Johnson, ancora fedeli al
Re, vogliono convocare un concilio delle varie tribù indiane per
convincerle a combattere contro gli insorti in nome della protezione
che i latifondisti realisti hanno sempre concesso loro, a differenza
dei ribelli capeggiati da Philip Schuyler che si stanno dimostrando
molto violenti nei confronti degli indigeni.
Le pagine scorrono e quasi senza accorgerci ci troviamo coinvolti
appieno negli eventi, avendo man mano sempre più dimestichezza con
le parti in causa e con la ridda di personaggi. Tra di essi spiccano
alcuni membri della famiglia Brant: la sorella di Joseph, Molly “la
strega”, vedova di quel William Johnson che tutti i pellerossa
considerano esempio di virtù e giustizia, qualità che i bianchi
hanno dimenticato con la sua dipartita; Peter, suo figlio, per il
quale questa è la prima guerra, un mondo violento da scoprire in
prima persona, col suo carico di fascino e paura; ruolo centrale avrà
anche Philip Lacroix, le grand diable, pellerossa che per
colpa di alcuni indiani sbandati ha perso moglie e figlia e da quel
giorno, dopo essersi vendicato brutalmente, vive solitario nei
boschi. Ora sta tornando dalla sua gente. Combatterà? Sul fronte
avverso troviamo Ethan Allen, il Golia delle Green Mountains, capo
dell’esercito irregolare che lotta a fianco di quello
continentale in nome di una voglia di libertà nata dallo spirito
brigante che lo governa e dall’odio verso le autorità e le loro
tasse. Più una testa calda che un vero alleato, ma pur sempre un
fucile in più da usare contro i lealisti.
L’America, questo immenso continente, potrebbe essere davvero
Manituana, l’isola utopica delle leggende indiane, dove popoli
diversi, dal nord e dal sud, si uniscono per far cessare le guerre e
far nascere una stirpe dalla pace e dalla fusione di identità
differenti. Ma, esattamente come nel mito, la propensione istintuale al
conflitto resiste nell’uomo, prevalgono l’odio per il diverso e
la difesa della propria comunità: Manituana viene distrutta,
spezzata, lacerata. Gli Stati Uniti covano divisioni profonde, forse
insanabili. I protagonisti del romanzo sono persone che
contemporaneamente subiscono e fanno la storia, la vedono passare
sulle loro teste, o muoversi sotterranea tra gli intrighi politici,
ma ne sono anche artefici grazie alle loro azioni sul campo e alle
strategie che scelgono di adottare. Lo stile è asciutto, privo di
fronzoli ma allo stesso tempo ricco di materiale, proposto con tale
naturalezza da non dar mai l’impressione d’esser un pretesto per
buttar lì un po’ di colore dell’epoca storica.
Guy Johnson decide di fare un ultimo tentativo per risollevare le
sorti della propria famiglia: andrà a Londra per cercare il sostegno
diretto di Sua Maestà e per ritornare in America con la propria
autorità restaurata. Per Philip, Joseph e Peter è l’occasione di
visitare la capitale dell’impero, un formicaio brulicante di vita:
dai vicoli sordidi sino ai salotti più raffinati, i tre indiani
avranno modo di incontrare quello che ai loro occhi è un “nuovo
mondo” popolato da straccioni, freaks, ambigui damerini ed
eccentrici nobili, come Lord Warwick, l’annoiato dandy loro ospite
a Londra. Lo spaesato gruppetto diventa, suo malgrado, l’attrazione
principale per gli inglesi, in piena “indiano-mania”. Nell’anno
1775 sta infatti impazzando una banda di malviventi che ama
travestirsi da pellerossa, guidata da un tale che si fa chiamare Taw
Waw Eben Zan Kaladar II, autoproclamatosi imperatore della nazione
Mohock londinese. Si aggiunge così un’ulteriore lingua, quella dei
bassifondi di Londra, che gli autori dipingono attraverso lo slang
della mala locale che ci cala subito in atmosfere oscure e criminali.
Manituana è infatti anche una Babele fatta di numerose voci,
in cui a volte basta un cambio di paragrafo per mutare la
prospettiva e il punto di vista.
Proseguendo con la lettura, invogliata da una chiarezza che riesce
a rendere avvincente e scorrevole una materia tanto vasta e
complessa, pian piano si comprende il motivo del proprio spaesamento:
la storia che ci viene raccontata non è quella che ci aspettavamo. I
coloni indipendentisti, quelli che dovrebbero essere gli eroi epici
di un’epopea di libertà, risultano tutt’altro che positivi, con
la loro violenza contro gli indiani. Ma come, i Wu Ming parteggiano
allora per i monarchici? Non è proprio così, e porre la questione
in termini di fazioni è fuorviante, non perchè il collettivo di
scrittori non prenda posizioni, ma perché se proprio vogliamo
ascriverli ad una parte, allora essa è quella di chi vuole leggere
la Storia in profondità, aldilà dei facili riassuntini rassicuranti
e reazionari, intendendola come un intricato intreccio di rapporti di
forza, ideali e ragioni economiche che le semplificazioni scolastiche
non mostrano. Immergersi in questo materiale significa mostrarne la complessità abbattendo facili etichette
(buoni, cattivi, indiani, bianchi, indipendentisti, lealisti…).
L’indipendenza dall’Inghilterra, per esempio, comporta la
decadenza dei limiti imposti alla colonizzazione dell’America,
frutto di un precario accordo tra i rappresentanti del re e gli
indiani e porta dunque ad un’oggettiva maggiore tensione tra i due
popoli.
Comunque, qualsiasi siano gli ideali che li fanno sorgere, i conflitti nuocciono agli affari: ecco allora spuntare a Londra una terza fazione (capitana da Lord Cavendish) decisa a scendere in campo, per il re o contro non fa differenza, basta che venga tutelato il libero mercato, proprio negli anni in cui Adam Smith ne teorizza la “mano invisibile” che dovrebbe garantire una sua auto-regolamentazione. Come al solito i Wu Ming scavano a fondo nelle contraddizioni della società.
Comunque, qualsiasi siano gli ideali che li fanno sorgere, i conflitti nuocciono agli affari: ecco allora spuntare a Londra una terza fazione (capitana da Lord Cavendish) decisa a scendere in campo, per il re o contro non fa differenza, basta che venga tutelato il libero mercato, proprio negli anni in cui Adam Smith ne teorizza la “mano invisibile” che dovrebbe garantire una sua auto-regolamentazione. Come al solito i Wu Ming scavano a fondo nelle contraddizioni della società.
A mano a mano che la loro causa appare sempre più prossima alla
sconfitta, i lealisti si fanno più spietati e gli indiani al loro
fianco più incontrollabili: la guerra diventa una serie scomposta di
azioni efferate, senza alcuna strategia che non sia una disperata e
rabbiosa vendetta. Gli Usa sono nati anche qui, tra miseria e
crudeltà, evocate dagli autori con echi dall’Olocausto; ed in
effetti siamo di fronte ad un altro, più remoto, genocidio. Scenari
apocalittici, perché è proprio un mondo, quello indiano, che muore,
costretto a lasciare il campo ad una nuova umanità.
ORDINI di GEROGE WASHINGTONal general maggiore JOHN SULLIVAN31 maggio 1779
La spedizione di cui vi è stato affidato il comando deve essere diretta contro le tribù ostili delle SEI NAZIONI, compresi i loro sodali e clienti. L’obiettivo immediato è la DISTRUZIONE totale dei loro insediamenti e la cattura del maggior numero di prigionieri di entrambi i sessi e di tutte le età. Sarà essenziale devastare i campi impedendo il raccolto in corso e quelli futuri.Consiglio e raccomando di insediarsi al centro del territorio indiano con una scorta sufficiente di vettovaglie e munizioni e da lì far partire le spedizioni contro i villaggi all’intorno, dando istruzioni di farlo nel migliore e più efficace dei modi, così che il paese non venga semplicemente saccheggiato, ma DISTRUTTO.Voi non presterete orecchio a nessun tentativo di pacificazione fino alla devastazione totale di tutti gli insediamenti. La nostra sicurezza futura risiede nella loro incapacità di danneggiarci e nel terrore che la severità della nostra punizione saprà instillare nelle loro menti.
La guerra segna i destini, divide le strade. Gli uomini, con le
loro scelte, possono decidere se assecondarne gli orrori o ergersi in
nome di valori più forti delle contingenze. In ogni caso, il percorso
è irto e pieno di sangue. Manituana non esiste, qui sulla terra
straziata eternamente dalla violenza degli uomini sugli uomini; pur non esistendo, però, essa muove le persone, le spinge a lottare, ed
anche questo è un processo che non avrà mai fine. Come l’utopia
di Galeano, Manituana è lì, all’orizzonte. Un altro passo, il
cammino continua.
Nicola Campostori