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Il giornalista,
Miriam Mafai
Miriam Mafai
Edizioni Ensemble, 2016
pp. 64
5€
5€
Miriam Mafai manca. Il suo è un vuoto ideologico e personale: ad essere assente non è solo la figura della giornalista attenta osservatrice dei cambiamenti della politica e della società del nostro Paese, quasi “fotografati” e analizzati con un'ampia produzione saggistica. A mancare è la figura di una donna sempre in prima linea di fronte ai temi che contano, alle questioni sociali ed etiche più impellenti, affrontate ed enucleate con una lungimiranza e un’intelligenza che rendono la sua assenza ancora più profonda e incolmabile.
Miriam era nata a nel 1926, figlia di due fra i più noti artisti del XX secolo, il pittore Mario Mafai e la scultrice Maria Antonietta Raphael, tra i fondatori della corrente artistica della Scuola Romana. Militante comunista di lungo corso, aveva partecipato alla Resistenza antifascista a Roma. La sua carriera giornalistica era cominciata con l'Unità, all'epoca "Organo del Partito Comunista Italiano", all'inizio degli anni Sessanta ma prima ancora, alla fine degli anni Cinquanta, era stata corrispondente da Parigi per il settimanale Vie Nuove. Poi, dalla metà degli anni Sessanta al 1970 era stata direttore di Noi Donne e poi inviato per Paese Sera. E poi Repubblica, per più di trent'anni. Dal 1983 al 1986 sarà anche presidente della Federazione nazionale della stampa italiana.
Il pamphlet sulla professione della giornalista (che lei, non ha caso, ha declinato al maschile proprio per evitare ragioni femministe, con l’intento di focalizzare l’attenzione sulla professione) sembra essere scritto sotto un’ispirazione profetica laica. Trent’anni fa Il giornalista (pubblicato in una nuova edizione da Ensemble) affrontava le medesime questioni professionali e sociali che investono oggi la figura culturale del produttore di informazioni. Eppure erano ancora lontani i temi del giornalismo partecipativo, del ruolo dei social network all’interno del mondo delle informazioni e la questione (irrisolta) della proprietà intellettuale nell’era di Google News. Miriam Mafai effettua una lucida analisi su una professione "casta" che non risparmia niente e nessuno, nemmeno se stessa, dato che le riflessioni generali si incuneano all’interno di quella che potrebbe essere definita la parentesi giornalistica nella biografia di una donna esemplare.
Sono entrata in un giornale perché “conoscevo qualcuno”, e questa resta ancora – a tanti anni di distanza – la strada principale di accesso alla professione. Le porte dei giornali si aprono solo all’interno: è inutile bussare o dare spallate se non c’è qualcuno da dentro che socchiude almeno uno spiraglio. Per questo si dice tra di noi che il primo consiglio da dare a un giovane che voglia fare il giornalista è di nascere figlio di giornalista, o figlio di un amico di un grande giornalista.
Non sono sicura che abbia vinto la corsa ai migliori. E mi chiedo se questo lungo tirocinio, questa lunga attesa non selezionino negli aspiranti, anziché lo spirito critico e la passione per il mestiere, la tendenza al conformismo e l’accortezza a tacere. C’è chi, per diventare giornalista, preferisce bussare, anziché alla porta di una redazione, alla porta di un partito.
È difficile fare questo lavoro senza un reale interesse alle storie che si raccontano e agli uomini che ne sono protagonisti.
Accetto che la realtà sia essa stessa un disegno criptico; cerco di raccontarne, con onestà, il pezzetto che vedo, ben sapendo che il pezzetto che racconto è così piccolo che rischia di essere isolato, non del tutto veritiero.
© Marilena Nardi |
Nel corso della lettura scaturisce il desiderio di avere Miriam ancora qui, dietro alla sua scrivania, a vedere la situazione attuale nel mondo dell’informazione: poterla intervistare e chiederle il suo parere sul futuro, alla luce delle parole scritte più di tre decenni fa, sarebbe un privilegio dal valore inestimabile:
Un giornalista al videoterminale è ancora un giornalista in senso stretto, è ancora un professionista, o tende, inevitabilmente, ad assumere un altro ruolo e a trasformarsi in un tecnico, per quanto qualificato, della comunicazione?
E se l’arrivo del calcolatore preparasse lo scivolamento della nostra categoria dal mondo felice e disordinato dei “creativi” al mondo grigio e disciplinato degli “amministrativi”?
In tutte le azienda culturali arrivano e crescono manager che non hanno più niente in comune con i nostri vecchi amministratori ferocemente sparagnini o volgarmente corruttori ma anch’essi partecipi di questa mitologia collettiva del giornalista. Per il manager di oggi il prodotto “giornale” è un prodotto come tutti gli altri niente affatto particolare, e gli addetti alla sua produzione sono “astratte” unità indifferenziate. Ma qui non si tratta di saponette o scarpe o bulloni, ma di giornali e giornalisti. Un prodotto culturale, professionisti.
Il saggio è, poi, uno spunto utili per tutte le giovani donne che lo leggeranno per riflettere sul loro lavoro e, soprattutto, su se stesse. Le parole di Miriam Mafai riescono ad accrescere la consapevolezza rispetto al mondo duro e difficile in cui le donne si muovono e, contemporaneamente, le aiutano a comprendere meglio i limiti imposti alla propria autostima. L’intelligenza del femminismo della Mafai è tale da non cadere negli eccessi opposti e fanatici in cui, frequentemente, le donne militanti cadono:
Ero pagata a borderò e, per quello che ricordo, non erano grandi cifre. Il che non mi impediva di essere soddisfatta, assolutamente felice, quasi incredula della possibilità che mi era stata offerta di fare quello che veramente mi piaceva. Questo atteggiamento psicologico, frequente nelle donne, rischia di danneggiarne gli sviluppi professionali.
Viene sempre il momento in cui a una donna giornalista viene chiesto se e come concilia la vita familiare con la professione. La stessa domanda viene rivolta a donne che si occupano di politica, a donne magistrato, o dirigenti d’azienda. Le due cose, vita familiare e professione, in realtà non si conciliano facilmente a meno che non si disponga di una nonna o di una governante. In mancanza di una nonna (sempre più rara) o di una governante (che richiede cifre vertiginose) la giornalista, così come la donna magistrato, deputato o dirigente d’azienda, ripiegherà su un mix formato da baby sitter più una donna di servizio a ore più una nonna la domenica più un’amica per i casi d’emergenza. È una soluzione scomodissima, generalmente ansiogena, che può funzionare solo se la giornalista ha un sistema nervoso di ferro, ottima salute, una buona dose di egoismo e un alto grado di identificazione nel ruolo. Se tutto questo non c’è non si può fare la giornalista (o il magistrato, il dirigente d’azienda o il deputato), e contemporaneamente mettere al mondo dei figli ed essere felici.
Federica Privitera
Immagine riprodotta per autorizzazione della casa editrice