Scritti, ricordi, interventi (1962-2010)
di Bernardo Bertolucci
a cura di Fabio Francione e Piero Spila
Garzanti, 2010
pp. 296
Euro 18,00
«Il libro che non sapevo di avere scritto».
Avete mai scritto un libro “a vostra insaputa”? Mi rendo conto che l’espressione è ultimamente un po’ abusata, e per giunta negativamente connotata, ma fuor di fraintendimento è proprio quello che è capitato a Bernardo Bertolucci. «Non troverai più di tredici o quattordici pezzi…», aveva detto il cineasta parmense, con l’intento di scoraggiarlo, all’amico Piero Spila, che nel 2009 gli aveva proposto di raccogliere in volume tutti i suoi scritti cinematografici. E invece… Invece i pezzi ritrovati finirono con l’essere molti, moltissimi di più. Al punto che La mia magnifica ossessione, il libro edito un anno dopo da Garzanti, e curato dallo stesso Piero Spila insieme a Fabio Francione, non è, a sua volta, che una selezione parziale di quegli Scritti, ricordi, interventi (come da sottotitolo) redatti e licenziati da B.B. dall’inizio degli anni Sessanta fino a tutto il primo decennio degli anni Duemila. Una antologia di quasi 300 pagine che ogni appassionato di cinema – meglio ancora se nella sua variante più radicale: il cinéphile – dovrebbe avere nella sua biblioteca, sia egli un ammiratore o un detrattore del regista italiano. Perché al suo interno vi è certamente una lettura della produzione filmica di Bertolucci (vista peraltro proprio attraverso la lente personale dell’artista che parla di sé), ma più significativa è forse la dichiarazione d’amore dello “scrittore” in questione per la settima arte e per gli amici e i mentori di una vita, da Godard a Renoir, da Antonioni a Pasolini, da Wenders a Ophlüs.
Articolato in quattro macro-sezioni – Sui miei film, sul mio cinema; Maestri e compagni di viaggio; Se fossi un critico cinematografico; Conversazioni – il bel volume ha un primo grande pregio, che va oltre il lodevole e rigoroso scavo archivistico dei curatori: l’impressione che se ne trae alla lettura, difatti, è quella di sfogliare una raccolta privata di ritagli da quotidiani e da riviste, un florilegio simile a un grande collage di pagine, tra le quali saltabeccare con la curiosità un po’ morbosa che si avrebbe nei confronti di un journal intime sottratto al legittimo proprietario. Pur trattandosi di dichiarazioni pubbliche – nel senso di destinate alla pubblicazione, poiché le trascrizioni di conferenze, convegni e interviste, pur esistenti, non figurano nel volume in questione – si percepisce sempre un tale piacere di raccontare e di raccontarsi, una tale complicità nell’espressione, che il lettore non può non dirsi sedotto dalla conseguente atmosfera di familiarità che si viene a creare: come se Bertolucci si rivolgesse sempre e confidenzialmente a qualcuno in grado di comprenderlo, di coglierne riferimenti e citazioni. Magari proprio a un cinefilo come lui, appunto; a un sodale, a un gaudente, a un sognatore.
I dati biografici e quelli più propriamente estetici si fondono gli uni con gli altri, come per un effetto continuo di dissolvenza incrociata o di sovrimpressione: così il rapporto con il padre, il poeta Attilio, porta con sé anche la frequentazione precocissima di Pier Paolo Pasolini, che a Roma abitava al primo piano dello stesso palazzo dei Bertolucci, e di cui il giovane Bernardo fu assistente alla regia in Accattone, poco prima di debuttare a sua volta con La commare secca; la passione per la musica classica e poi per il jazz trovano da parte loro uno sbocco memorabile nella colonna sonora di Ultimo tango a Parigi, affidata all’amico Gato Barbieri; la lavorazione di Piccolo Buddha e di L’ultimo imperatore lasciano invece nel cineasta e nell’uomo la traccia indelebile del buddhismo; lo stesso rapporto con le donne – secondo una prassi non infrequente nell’ambiente cinematografico – non va disgiunto da quello con le attrici, come risulta dalla complicata liaison con Adriana Asti (la tormentata zia Gina di Prima della rivoluzione) e Laura Betti (tra le protagoniste di Novecento).
Memorabili e sempre vibranti anche tutti gli aneddoti legati a questioni più prettamente artistiche e cinematografiche, nel cui racconto, non a caso, capita di imbattersi in più di un’occasione, quasi che Bertolucci ci tenesse a ribadire alcuni punti fermi del suo percorso, senza rinnegarsi mai. Più volte viene menzionata, per esempio, la “posa”, risalente a inizio carriera, di rilasciare interviste solo parlando in francese, l’unica lingua che il regista esordiente, ancora incompreso in Italia ma sedotto e accolto dalla Nouvelle Vague, considerava adatta a esprimere il cinema. Lo stesso capita alla teoria “della porta aperta”, una lezione appresa da Renoir in favore dell’ingresso imprevedibile della realtà all’interno dell’inquadratura. Ancora, vengono rievocate più volte le vicissitudini relative alla visione continuamente differita di Le plaisir, il film a episodi di Ophlüs del 1951, capace di indurre il regista in un tale stato di agitazione estetica da costringerlo ad abbandonare a più riprese la sede della proiezione.
Il libro che Bertolucci non credeva di avere scritto si conferma così un contributo irrinunciabile per i cultori del regista e per gli amanti del cinema: il suo fascino sta proprio nella felice ambiguità della sua genesi e delle sue “intenzioni”, mentre la sua forza appare già annunciata dall’immagine di copertina, tutta riassunta in quella scritta – NO FEAR – ricamata sul berretto del cineasta ormai maturo immortalato a lavoro sul set. Così fa il genio, così fa l’artista: una volta compresa la propria “ossessione”, non può che esaltarla e celebrarla con lodi, in una “magnificazione” necessaria e, si intende, “senza paura” alcuna.
Cecilia Mariani