Come si legittima la violenza
di Chiara Volpato
Laterza, 2016 (Prima edizione aprile 2011)
12.00 €
Cosa significa deumanizzare? Quali sono le cause alla base del processo di negazione dell'umanità da parte di un essere umano nei confronti di un suo conspecifico? Chi sono gli attori in causa e chi invece costituisce il bersaglio di questo tanto inquietante quanto diffuso fenomeno? E quali sono le conseguenze sugli uni e sugli altri?
A tutti questi quesiti si propone di rispondere l'interessante trattazione di Chiara Volpato: partendo dai drammatici fenomeni di deumanizzazione che hanno caratterizzato la storia dell'uomo dalla sua origine fino a oggi e sottolineandone gli effetti, la studiosa mette in luce come la comparazione dell'umano al non umano e l'utilizzo di un linguaggio deumanizzante, tanto oggi come nel passato, possano suscitare effetti sul nostro modo di percepire gli altri.
Dalla legittimazione dello status inferiore degli schiavi e delle donne attraverso l'accostamento dei suoi rappresentanti agli animali, in una visione gerarchica e piramidale della società e del genere umano, fino all'importazione nel Nuovo Mondo di categorie mutuate dall'antichità classica per definirne le popolazioni come creature non razionali, bestie, infezioni o diavoli. Dall'animalizzazione degli indigeni e dei neri nelle colonie a quella degli strati inferiori della popolazione, volta a consolidarne il disprezzo da parte delle fasce più agiate, salvaguardandone lo status quo. Le donne, in particolare, hanno accolto su di sé immagini e termini che ne suggerivano, di volta in volta, l'analogia con animali, strumenti o esseri sovrannaturali (quest'ultima forma di deumanizzazione è stata ampiamente usata per giustificare le decine migliaia di esecuzioni avvenute durante il medioevo e in epoca moderna in nome della caccia alle streghe).
L'uso di termini che si riferiscono ad altre categorie dell'esistente da parte degli appartenenti a un certo gruppo per rappresentare uno o più esseri umani a esso estranei (oppure aventi caratteristiche diverse o ritenuti competitor) rafforza il sentimento identitario, annullando i meccanismi di empatia e solidarietà: si mette una “maschera” all'altro per non vederlo simile a noi, per giustificare gli abusi e le violenze che gli vengono inflitti, gli si fornisce l'immagine di elemento destabilizzatore in grado di mettere in crisi l'ordine e la giustizia sociali. Tale “maschera” è linguistica – quando non iconografica – e può acquisire le sembianze di una moltitudine di metafore:
“Ciascuna metafora racchiude significati complessi e spesso ambivalenti; la metafora animale, per esempio, può significare che i membri del gruppo ritenuti subumani sono considerati come animali domestici, il cui sfruttamento è utile alla società, oppure come animali nocivi, da eliminare. Le conseguenze sono chiaramente diverse. Paragonare i membri di gruppi estranei a spiriti, diavoli, mostri, ma anche a microbi e virus, comporta la paura dell'invisibile, dell'ignoto e porta a livelli intollerabili la percezione di minacciosità del gruppo nemico. Considerare l'altro un oggetto rinvia invece all'universo della mercificazione, all'uso strumentale del corpo, all'azzeramento dell'anima.”
Ma perché studiare la deumanizzazione, che è al tempo stesso fenomeno sociale e processo psicologico, è così importante?
Lo studio della Volpato si sofferma a lungo sugli esiti di studi sperimentali e sul loro fondamentale apporto all'esame di questa peculiare materia della psicologia sociale.
Secondo Herbert Kelman, uno dei primi a studiare i processi di negazione dell'umanità come correlati alla violenza estrema, la deumanizzazione è uno dei tre processi necessari alla produzione di atrocità sociali; gli altri due sono l'autorizzazione alla violenza da parte di autorità legittime e la routinizzazione nell'esecuzione dei compiti, in grado di produrre la “diffusione della responsabilità” (la responsabilità dell'individuo nel prendere decisioni che influenzeranno in modo determinante la vita e il benessere di altre persone viene avvertita in misura minore in quanto “distribuita”, chiamando in causa non più il singolo, ma il gruppo). Una tesi a cui un altro ricercatore, Albert Bandura, si è ricollegato per formulare il costrutto del “disimpegno sociale”, che rende accettabili condotte che si configurano come nettamente contrapposte agli standard etici interiorizzati nel corso dello sviluppo morale. Questi e successivi studi, di cui il saggio di Chiara Volpato si avvale al fine di un'indagine la più esaustiva possibile, ci portano a comprendere un po' più da vicino la complessità dei processi responsabili della “trasformazione” di un bravo ragazzo in soldato in grado di eliminare militari e civili. Deumanizzare diviene quindi premessa per la “sospensione” della normale condotta morale, condizione questa che si verifica in concomitanza con atti fortemente discriminatori, conflitti e genocidi.
Metafore deumanizzanti tese a legittimare atrocità si riscontrano analizzando tanto l'hitleriano Mein Kampf quanto la rivista quindicinale, pubblicata dal 1938 al 1943, Difesa della razza, feroce strumento di propaganda del regime fascista. In entrambe le pubblicazioni, le strategie di delegittimazione hanno come base riferimenti e paragoni ad animali, virus e malattie con cui – con grande fantasia, bisogna ammetterlo – venivano definiti ebrei, marxisti, popoli colonizzati.
Altrettanto interessanti sono gli esiti, riportati dall'autrice, dello studio linguistico compiuto da Steuter e Wills sulla rappresentazione, dopo l'11 settembre, del nemico terrorista da parte dei media occidentali. Dopo aver preso in considerazione il lessico utilizzato sia per descrivere la minaccia terroristica sia per definire le operazioni militari (per le quali venivano proposti termini come snidare, trappola, caccia, cattura, ripulire, tane, covi, nidi), i due studiosi sottolineano la similarità tra queste metafore e quelle usate, durante la seconda guerra mondiale, dai nazisti per descrivere gli ebrei e dagli americani per descrivere i giapponesi.
Qualcosa di simile avveniva e continua ad avvenire per i fenomeni migratori: si è fatto largo uso di immagini deumanizzanti per definire immigrati, rifugiati e richiedenti asilo al fine di screditarne l'immagine di fronte all'opinione pubblica. Sia che li si disegni come clandestini, categoria che prescinde dalle storie individuali e dalla comunità di provenienza di ognuno di essi, sia che vengano paragonati a merci, strumenti, materiale grezzo – un linguaggio utilizzato tanto dagli ospitanti nei confronti degli emigranti italiani tra Ottocento e Novecento (e sarebbe bene ricordarlo) quanto dai nostri connazionali, più di recente, per definire gli immigrati in Italia – la proprietà che li definisce sembra essere l'interscambiabilità.
Una delle funzioni fondamentali della deumanizzazione sembra infatti consistere nella legittimazione e preservazione dello status quo:
“Deumanizzare i poveri, gli sfortunati, i vinti è consolante per chi povero, sfortunato, vinto non è, o non si considera. Aiuta a pensare che meritano il poco o il niente loro riservato, che non c'è bisogno di stringersi per far loro spazio, né di dividere con loro le risorse, sempre per definizione percepite come scarse. La deumanizzazione ha in questo senso una funzione rassicurante per i gruppi favoriti: serve a credere che non saranno toccati da una sorte analoga a quella dei gruppi meno fortunati.”
L'analisi di Chiara Volpato è tesa alla definizione e comprensione del processo di deumanizzazione, e delle differenti modalità in cui esso si presenta nonché dei fenomeni psicologici e sociali che ne stanno alla base: viene citata la ricerca di Christina Maslach sul burnout, ovvero “i rischi psicologici insiti nel lavoro di aiuto emotivamente impegnativo che può condurre persone inizialmente premurose e altruiste a deumanizzare e maltrattare proprio chi dovrebbero aiutare” mentre un coinvolgente capitolo è dedicato alla deumanizzazione sottile, cioè quelle “forme meno apparenti, più sottili e quotidiane, che ci portano a percepire gli altri non come esseri inumani, animali o mostri, ma come individui un po' meno umani di noi, figli di un dio minore, come titolava un film di qualche anno fa. Queste sottili sottrazioni di umanità non hanno bisogno, per manifestarsi, di situazioni corrosive di ostilità sociale, sottendono comportamenti e atteggiamenti della vita di ogni giorno, solitamente senza che l'attore sociale ne abbia consapevolezza.”
E se la deumanizzazione sottile è qualcosa con cui quotidianamente abbiamo a che fare, un'altra forma di negazione dell'umanità con cui siamo costantemente in contatto è l'oggettivazione. Vale la pena soffermarsi sui paragrafi dedicati dall'autrice all'oggettivazione femminile: con essa s'intende la riduzione della donna a oggetto sociale, pensata e percepita come corpo disponibile per l'uso e il piacere altrui piuttosto che come essere capace di agire in modo autonomo e responsabile. Un fenomeno soverchiante, che si manifesta attraverso annunci pubblicitari, riviste, programmi televisivi, film e di cui una pericolosa conseguenza è il processo di auto-oggettivazione, l'interiorizzazione della prospettiva dell'osservatore, per cui donne e ragazze imparano a valutare se stesse sulla base dell'aspetto fisico. Questa particolare percezione di sé in funzione del piacere altrui ha effetti a dir poco rilevanti sulla vita e sul benessere psicofisico di chi la mette in atto:
“(…) l'oggettivazione conduce all'auto-oggettivazione, che scatena emozioni negative, fa diminuire le esperienze motivazionali di picco, riduce la consapevolezza degli stati interni. Questa catena di relazioni contribuisce alla diffusione degli stati depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari.”
Una delle ragioni per cui la lettura di questo volume è fortemente consigliata risiede proprio nella prima delle strategie indicate per contrastare i processi di deumanizzazione che spesso precedono e giustificano conflitti, sfruttamento e subalternità di altri popoli o individui, atrocità e abusi nei confronti di chi non è più riconosciuto come umano, conspecifico. Il primo passo per fermare i meccanismi deumanizzanti è infatti vederli, riconoscerli, abituarci a una fruizione critica dei messaggi di cui la nostra quotidianità sovrabbonda, che siano veicolati dalle campagne politiche o dagli spot, dai quotidiani o da periodici di ogni genere, dal web o dalla televisione.
In quest'ottica, Deumanizzazione - Come si legittima la violenza diviene imprescindibile e potente strumento ermeneutico per muoversi nel complesso e delicato intreccio delle relazioni umane e grazie al quale è possibile indagare i vari gradi di distanza e diversità con cui una persona, un popolo, un gruppo di individui ci viene presentato, e quindi porre a noi stessi dei quesiti, le cui risposte spesso saranno scomode e poco confortanti, sulle ragioni e sugli interessi di chi si fa portavoce di determinate prospettive.