di Edoardo Albinati
Rizzoli, 2016
pp. 1294
€ 22
Non si può non partire dal numero delle pagine. Un insegnante di letteratura potrà correggermi ma sono tentato ad azzardare l’ipotesi che ci troviamo dinanzi al romanzo italiano più lungo della storia. Con il termine romanzo escludo qualsiasi altro genere, dal poema, Dante, Boiardo, Ariosto, Tasso, alla raccolta di novelle in stile Boccaccio.
Non mancano esempi di libri corposi, almeno da quando in Italia il romanzo ha conosciuto una certa fortuna, quindi da Manzoni che già di per sé scrive una storia da spalmare in un intero anno di liceo. La moda dei libri monumentali è diffusa più di quanto si creda: ci sono ad esempio i giallisti scandinavi e gli statunitensi, con il top rappresentato, per più di un motivo, da “Infinite Jest” di David Foster Wallace. Ma anche la trilogia dell’Ibis che ho cercato di raccontare su Critica Letteraria, dell’indiano Amitav Ghosh, vola oltre le 2.000 pagine.
Torniamo ai confini patri: cito Goliarda Sapienza con “L’arte della gioia”, “I viceré” di De Roberto, libro ingiustamente offuscato dalla coeva produzione di Verga, “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, unico romanzo pynchoniano della letteratura italiana, “Petrolio” di Pasolini prometteva bene ma sappiamo com’è finita, recentemente “Le cose semplici” di Doninelli ha superato le 800. Il record di Albinati, tuttavia, sembra di breve durata perché l’annunciato “La vita vera è altrove” di Giuseppe Montesano toccherà quota 2.000. Qualcuno potrebbe perfino considerare l’Amica Geniale, il ciclo di Elena Ferrante, un unicum benché articolato in quattro volumi.
Albinati: lo scrittore romano, sessanta anni esatti, costruisce un grappolo di narrazioni partendo dalla sua esperienza personale di studente di una scuola cattolica, ecco il titolo, e girando a sfinimento attorno a un fatto che lo ha coinvolto emotivamente. A dire il vero ha coinvolto emotivamente l’Italia intera: il delitto del Circeo avvenuto il 29 settembre 1975.
Siamo oramai abituati a fatti di cronaca che letteratura e cinema trasformano in cartine di tornasole della storia del dopoguerra. In genere sono atti di terrorismo o che coinvolgono trame segrete, da Portella della Ginestra a Enrico Mattei, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna. Anche la storia criminale, vedi banda della Magliana, è inserita in un contesto di intrighi, complotti e servizi segreti. Ecco allora la prima domanda: il delitto del Circeo, ovvero tre balordi che sequestrano, torturano e uccidono due malcapitate, o meglio credono di avere ucciso, un fatto di pura cronaca nera può assurgere a emblema di decenni d’Italia repubblicana?
Ebbene, il 1975 è l’anno in cui Edoardo Albinati vota per la prima volta. E non è un anno qualsiasi. A parte giovani di destra e di sinistra morti per mano di avversari politici, uno stillicidio, a parte l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, di cui magari, come attenuante, possiamo dire che è argomento abusato, credo che altri avvenimenti potevano fornire spunti di riflessione: la fuga del terrorista Mario Tuti che prima ammazza due carabinieri, la legge di riforma del diritto di famiglia, forse l’autentica rivoluzione di questo paese nel corso del dopoguerra, le elezioni amministrative e regionali del 15/16 giugno, quelle del primo voto di Albinati, che portano il Pci al 33%, a soli 3 punti dalla Democrazia Cristiana, e al governo a Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Piemonte e Liguria.
Al di là di questo, Albinati è legittimato a scegliere il delitto del Circeo per articolare un libro-mondo o libro colossale, come direbbe Ida Bozzi, ma in ogni caso pesca nell’anno in cui l’anagrafe è benevola e diventa maggiorenne, dunque l’anno decisivo della sua vita. E qui, secondo me, in questo personalismo, si annida il germe che alla fine intacca il libro, inizialmente ben inquadrato anche da un punto di vista, come dire… sociologico.
Il delitto del Circeo è commesso, ai danni di due ragazze di modesta condizione socio-culturale, da giovinastri di buona famiglia in odore di neo-fascismo che hanno frequentato la stessa scuola di Edoardo Albinati: il San Leone Magno, quartiere Trieste. Roma. Una scuola cattolica aperta solo ai maschi. In quelle aule non c’erano femmine, le donne si fermavano ai cancelli dell’istituto e si trattava delle madri che recuperavano i figli. Bellissime ma di una fragilità estrema. I padri pensavano a consolidare lo status e alla villa al mare, quando andava bene. Parliamo di un universo chiuso, dove i preti, a dire il vero pure qualche professore laico venuto da Marte, impartiscono un’educazione e un’istruzione alquanto benevole e paternalistiche. Sui banchi, nel frattempo, crescono dei mostri. Autentici. O dei geni. O dei disadattati.
La considerazione è ovvia: un microcosmo la cui premessa era soltanto quella di modellare uomini dai forti connotati morali al servizio della società fallisce miseramente nei suoi intenti. Ora, non è che tutti gli studenti passati dal San Leone Magno siano diventati degli assassini o dei pazienti dei reparti psichiatrici, ma da quanto racconta Albinati, in molti, in troppi, hanno dovuto fare i conti con vari generi di nevrosi e problemi. Questi ragazzini si preoccupano di ogni goffaggine che possa mettere in crisi un’immagine di virilità, perché è così che vanno gli ormoni. Mentre si dibattono tra teoremi matematici e astrusi concetti filosofici, all’improvviso sono catapultati tra i 14 e i 18 anni, l’età più delicata, in un mondo caratterizzato dalla rivoluzione sessuale dei Settanta. D’altronde, la chioccia del San Leone Magno finite le lezioni chiude e tutti vengono sbattuti nella realtà esterna.
Promiscuità, matrimonio in crisi, la legge sul divorzio è del 1970 e il referendum che la conferma del 1974, nudismo in spiaggia, sesso sganciato dal matrimonio, donne emancipate. Questi ragazzi vivono praticamente in un cortocircuito perenne dove peraltro da ulteriore detonatore agisce la violenza. Mentre la crescita si fa esplosiva nell’acne, nel fisico e nel pisello, quello stesso mondo, oltre a essere disinibito, si fa cattivo. È interessante quanto dice Albinati sul tasso di violenza veicolato nell’immaginario collettivo, solo nel 1975, dal cinema. Il cinema terrorizza con violenze, stupri, torture. E chi è vittima di violenze, stupri e torture? Le donne. Quelle che pretendono di fare le star in una società rinnovata e libertaria e di mettere in crisi, per la prima volta, un concetto vecchio quanto l’infanzia del mondo: la supremazia maschile.
Allora questi maschi sono costretti a imparare una cosa sulla quale c’è grande impreparazione: maneggiare la violenza, sapersi fermare. Alcuni ce la fanno. Altri no. E la metà del libro viaggia con l’intento, riuscito, di smascherare queste micidiali contraddizione antropologiche ed esistenziali, tra dominio e sesso, impotenza e desiderio, componendo riflessioni a 360 gradi sulla scuola cattolica, la religione, la famiglia, la borghesia, il quartiere Trieste, Roma, l’estremismo politico. Sullo sfondo resta sempre il delitto del Circeo, trattato in maniera ridotta rispetto alla mole complessiva del volume. In alcune recensioni, il delitto pare la presenza costante e tangibile della costruzione letteraria. Andiamoci cauti: lo definirei rumore di fondo.
Così come rumore di fondo è l’amico Arbus, compagno di classe del narratore, particolarmente dotato, che va e viene anche grazie alla presenza dell’enigmatica sorella Leda. In questo fiume narrativo era inevitabile che certe situazioni o personaggi si lasciassero e si riprendessero, Albinati a volte consiglia al lettore di saltare dei paragrafi o capitoli, ma non capisco il fine di questi suggerimenti perché anche così facendo non si riallacciano chissà quali trame. Peraltro non è tanto questo il punto.
Il punto è che progressivamente si scivola lungo il piano inclinato dei fatti personali e non tutti mi sono parsi in grado di uscire dal retrobottega privato dello scrittore. Non mi sorprende che chi ha osannato questo libro sia stato Francesco Piccolo, già premio Strega con un bildungsroman molto autoreferenziale, a mio giudizio s’intende: “Il desiderio di essere come tutti”. Mi spiace, ma al sottoscritto la vita di una persona, seppur di un intellettuale di rango, non è che interessi tanto se finisce per diventare solipsismo. E in queste 1.300 pagine a volte si cade nella trappola: è un’impresa titanica maneggiare un libro-mondo.
Visti un paio di precedenti, Piccolo o il Nesi di “Storia della mia gente”, mi sento di fare un pronostico: avessi due sterline, al netto del Leicester della situazione, all'auditorium Parco della Musica scommetterei proprio su “La scuola cattolica”.
Marco Caneschi
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