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La 'sostanza' del dialetto: N'zuppilu N'zuppilu di Giuseppe Condorelli

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N'zuppilu N'zuppilu / Wet Through
di Giuseppe Condorelli 

trad. di Maristella Bonomo e Andrew Brayley

Le Farfalle
2016
pp. 64

€ 10 [cartaceo]



Nonostante una profetizzata morte per bocca di sociologi e di cassandre neo-avanguardiste, la versificazione nei vari dialetti d'Italia è un fenomeno che da qualche anno a questa parte sta tornando prepotentemente alla ribalta nel panorama poetico nazionale; e, ci permettiamo di aggiungere, con risultati degni di rilievo. Tra i tratti salienti di questo revival della 'musa dialettale' è certamente da annoverare una rinnovata sensibilità linguistica che, invece di chiudersi a riccio nel comodo perimetro del colore vernacolare, non ha paura di confrontarsi con le tendenze delle lingue e dei linguaggi della comunicazione globale contemporanea. È questo il caso di N'zuppilu N'zuppilu - Wet Through di Giuseppe Condorelli, poeta del catanese già noto per la sua produzione lirica 'in lingua', che dà alla luce un'elegante plaquette di ventuno poesie in dialetto siciliano con testo a fronte in inglese, pubblicata per le edizioni Le Farfalle del prodigioso poeta-editore Angelo Scandurra. Sfidando dunque le pur ovvie barriere geografiche e socio-culturali, la scelta artistica dell'autore permette di reinnervare la lingua della poesia - patria per antonomasia dell'alterità - attraverso il terreno fecondo di un'espressione primigenia che, bypassando le secche di un italiano (italiese?) sempre più dissanguato, riconosce la propria dignità linguistica sullo stesso piano dell'idioma anglosassone.
Tuttavia non sarebbe affatto giusto parlare di questo libro solo in termini di sociologia letteraria, perché Condorelli è un poeta di razza che sa impastare la realtà linguistica che si trova tra le mani. Rifiutando toni enfatici e macchie folkloristiche, il poeta lavora a cesellare, a essenzializzare la misura del dettato poetico a vantaggio di una sustanza ("sostanza") - lemma che ricorre due volte e ha una sua centralità nell'opera - inafferrabile quanto concretamente esperibile: "E sta sustanza / ca ni mancia / e ni leva u ciatu" [E questa sostanza / che ci rode / e ci toglie il fiato]. Soprattutto nei primi testi, essa diviene uno dei due poli - l'altro, antitetico, è l'ummira ("ombra") - che definisce lo spazio liminare in cui si muove la poesia di Condorelli: "Farisi vecchi / senza primura / comu i jatti da casa / furriari fra l'ummira / e a sustanza" [Invecchiare / senza fretta / come i gatti di casa / vagare tra l'ombra / e la sostanza]. 
È infatti una realtà spaesata e straniante, dai contorni imprecisati, che viene a delinearsi da subito come cifra distintiva del libro. La stessa corporeità fisica, in una dimensione cronotopica che rimanda al campo semantico della sospensione, dell'attesa estenuante di un evento taciuto e sempre in procinto di compiersi - come ci ricorda il titolo: N'zuppilu N'zuppilu, cioè "goccia a goccia", "piano piano" -, o non viene riconosciuta ("O specchiu / dda vota ca mi taliu / canusciu cchiù i robbi / ca a me facci" [Allo specchio / quella volta in cui mi guardo / riconosco più i vestiti / che la mia faccia]) oppure si smembra in un "ciatu mutu" (fiato muto), nella "carni astruppiata" (carne martoriata) del soggetto lirico che si sente "scusutu di tuttu / l'ossa sganguliati" [scucito da ogni cosa / le ossa smembrate]. E, a questo proposito, è di grande interesse rilevare che, nell'unica circostanza in cui emerge un'autocoscienza integra e integrale della sfera corporea, essa si pone, significativamente, in antitesi alla scrittura: "Sugnu fattu / di carni / di pinseri / e ddi sangu. // E no d'inchiostru" [Sono fatto / di carne / di pensieri / e di sangue. // E non d'inchiostro"]. Come a voler suggerire che, tra la vita vissuta e la (ri)costruzione letteraria, la poesia di Condorelli sceglie di collocarsi sul versante della prima. 
In questa atmosfera artefatta, che ha tutti i crismi del perturbante freudiano, si insinua il filo conduttore che attraversa velatamente tutta la plaquette: la preclusione di quella 'comunione tra i vivi e i morti' che, come ci hanno insegnato maestri del calibro di Sereni e Raboni, pertiene al limbo tra il sonno e la veglia: "I motti mi taliunu / di sgallengiu / 'i sentu ammummuriarsi / ammenzu i petri / e mi parrunu / na negghia di paroli / ca è sulu limarra / intra a me testa" [I morti mi guardano / torvi / li sento bisbigliare / in mezzo alle pietre / e mi parlano / una nebbia di parole / che è solo acqua e terra / dentro la mia testa]. Sono proprio queste parole, "stritti / 'ncagghiati / chiddi ca non si diciunu" [strette / incagliate / quelle che non si dicono], che il poeta cerca di offrire in un momento di vertiginosa e straziante preghiera: "Chiddu ca non t'ae dittu / ancora cogghilu / intra a me ucca. / (Ccu 'masuni)" [Quello che ancora non ti ho detto / coglilo / dentro la mi bocca. / (Con un bacio)]. 
Perché, in questa plaquette scabra e luminosa di Condorelli, solo tramite una preghiera come questa è possibile ricomporre lo iato altrimenti inconciliabile tra la vita degli altri e quella del poeta, fatta di "paroli crudi / comu na cruci / spogghia" [parole crude / come una croce / nuda] e illuminata da una consapevolezza finale che non lascia scampo: "Ma è a me' / a carni / 'ntagghiata / n'ta luci" [Ma è la mia / la carne / intagliata / nella luce].



Pietro Russo