di Marco Rovelli
Giunti, 2016
pp. 158
€ 16,50
“La guerriera dagli occhi verdi” è un libro partigiano, nel senso che Rovelli, musicista oltre che scrittore, parteggia in maniera netta. Questo carattere engagé, oggettivamente manicheo, viene tuttavia alleggerito dalla poetica di molte pagine e trova un suo contraltare. Se il romanzo raggiunga o meno un equilibrio soddisfacente, è questione soggettiva. Secondo me, sì e questo lo dobbiamo all’amore, letterario e umano, che Marco Rovelli riversa sulla figura, oramai mitica fra i guerrieri curdi, di Avesta Harun. Dopo avere letto una sua intervista sul “Foreign Policy”, Rovelli si mette sulle tracce delle donna e va in Kurdistan. Nel frattempo gli giunge notizia della sua morte e allora non ha più dubbi: ne racconterà la storia a partire da quando non era Avesta ma Filiz.
Filiz è una bambina come tante altre, una famiglia numerosa, un villaggio dove abitare e, ovviamente, un’innocenza straordinaria che per i figli di questo popolo lo è ancora di più perché vivono a contatto con la natura e suoi cicli millenari. È l’uomo che prende eccessiva confidenza con il potere e con le armi a violare anche le sorgenti più pure dei boschi e a fare marcire perfino gli alberi che producono le noci più buone del mondo.
Così lo stato turco sempre più con le cattive tenta prima la carta dell’annichilimento culturale del popolo curdo, successivamente fa parlare i blindati e le mitragliatrici. Basta portare un fazzoletto o una kefiah o dire per sbaglio una mezza parola in dialetto che si finisce dritti in prigione, quando va bene. A quindici anni Filiz lascia la famiglia e il villaggio montano dove è cresciuta, per unirsi ai combattenti del Pkk. L’appellativo che decide di assumere è Avesta: è il nome delle antiche scritture zoroastriane, i testi della religione del fuoco che i curdi praticavano prima di essere convertiti all’islam dai turchi. In questo modo Avesta decide di gridare al mondo che il suo popolo ha radici robustissime, culturali ed etiche, che lo tengono in simbiosi con la natura dei monti Zagros, dove gli antenati inchiodarono addirittura l’invincibile falange di Alessandro Magno. Come se non bastassero i turchi, adesso c’è pure da fronteggiare l’avanzata del Califfato.
Accanto alla storia di Avesta, si susseguono storie di altre persone, dai visi scavati, fieri, storie di danze e poesia, lotta e sopravvivenza, umiliazione e orgoglio. Storie di orrore e tenerezza. Tutte con un occhio di riguardo alla società curda, o per lo meno alla visione della società che hanno i curdi aderenti alle unità combattenti che si riconoscono ancora nella leadership del condannato all’ergastolo Apo Öcalan. In questa società viene posto in maniera forte l’accento sulla dimensione interiore dell’uomo, da nutrire quotidianamente con studio e lettura, che fa da matrice a un sistema egualitario basato storicamente sulla convivenza pacifica di etnie diverse. Tale visione porta a due conseguenze socio-politiche fondamentali: il ruolo della donna e l’organizzazione del potere. Le donne curde sono consapevoli che l’islam imposto dai dominatori è funzionale a protrarre il loro stato di schiavitù, a sua volta presente nella società curda dei secoli scorsi imperniata sui clan. Allora il grido di libertà deve essere più assordante del grido di oppressione che vorrebbe tenerle soggiogate: un paese non può dirsi libero se non lo sono le donne.
La riconquista dell’identità di genere, ed eccoci al punto della organizzazione del potere, è il presupposto per la vittoria finale e l’affermazione della sovranità di un popolo che sogna una sua nazione basata sull’equa distribuzione delle risorse, la tutela dell’ambiente e un radicale confederalismo democratico dal basso.
Quali domande si pongono? Intanto siamo abituati a collegare il Pkk alle parole dell’attuale presidente turco Erdogan che lo accusa di ogni attentato che insanguina Istanbul e la Turchia. Siamo anche condizionati dal fatto che il Pkk sia stato definito, per lo meno in passato, organizzazione terroristica da Turchia, e fin qui nulla di nuovo, ma anche da Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Australia. Certamente il Pkk è stato lo strumento attraverso il quale si sono combattuti servizi segreti di stati rivali, se non nemici, in particolare Turchia da una parte e Siria e Grecia dall’altra. Il Pkk e il suo leader Öcalan sono stati al centro di una querelle diplomatica delicatissima alla fine del millennio scorso, a cavallo di 1998 e 1999, che coinvolse Russia, il governo D’Alema, quello tedesco, e poi ancora Grecia, Kenia, Turchia e ci fu chi perdette pure una bella dose di credibilità.
Senza addentrarci oltre in risvolti di questo tipo e restando sul piano letterario, il libro di Marco Rovelli in qualche modo rende giustizia. Dà un quadro partigiano – sto pensando che non potrebbe essere altrimenti visto che in sostanza parla di partigiani – ma squarcia un velo su una formazione guerrigliera, i suoi ideali, chi la compone: non dei bombaroli assassini, ma le proiezioni umane di una natura matrigna, mai buona fino in fondo ma neanche cattiva, dove segnò il passo perfino il macedone che sognava di conquistare il mondo.
Marco Caneschi
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