di Martin Luther King Jr
Piano B edizioni, marzo 2016
Traduzione di Antonio Tozzi
pp. 192
euro 14
Ai miei cari figli: spero ardentemente che un giorno essi possano essere giudicati non per il colore della loro pelle, ma per il loro carattere.
Non so se questa sia la sede più indicata per parlare dell’attualità, ancora e soprattutto in questi tempi confusi, del messaggio di pace e uguaglianza di Martin Luther King Jr; ma leggendo Perché non possiamo aspettare, uno dei testi fondamentali della bibliografia del pastore americano e nei mesi scorsi ripubblicato dalla casa editrice Piano B (proprio in occasione del sessantesimo anniversario dell’istituzione della giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale) in una nuova traduzione, ho sentito l’urgenza di riflettere su un testo che per molti versi è ancora, purtroppo, tristemente attuale e, in generale, costituisce un punto di osservazione privilegiato sugli eventi di quell’estate del 1963 ripercorsi da uno tra i più attivi protagonisti.
Oltre alla celebre Lettera dal carcere di Birmingham, la raccolta – pubblicata per la prima volta nel 1964 – contiene alcuni saggi scritti da King nel corso di quella lunga estate di marce, proteste, sit-in, dimostrazioni pacifiche, culminate nell’imponente manifestazione del 28 agosto 1963 a Washington, dove bianchi e neri insieme chiesero a gran voce il riconoscimento dei diritti civili per tutti i cittadini americani e la fine, quindi, delle discriminazioni razziali. Il racconto in prima persona, talvolta con lo stile e il ritmo incalzante della cronaca, riesce a coniugare la partecipazione emotiva ad uno sguardo lucido e attento di una stagione complessa, rappresentando, quindi, un interessante documento per rileggerne la storia dall’interno. Oggi moltissime battaglie sono state vinte, i diritti conquistati, un presidente afroamericano è giunto alla fine del suo secondo mandato e le pagine più oscure di quella storia di razzismo e segregazione sembrano essere definitivamente archiviate; eppure, si diceva, è difficile leggere queste parole senza pensare al profondo razzismo radicato in un Paese in cui un ragazzo può essere ucciso, per strada, da un poliziotto, colpevole solo di aggirarsi con fare sospetto, di notte, una felpa con il cappuccio alzato, le mani in tasca e un gesto così erroneamente interpretato da costargli la vita; un esempio, diventato di colpo di interesse internazionale, che riaccende il dibattito su quali siano, al di là del politicamente corretto e degli inutili buonismi, le reali condizioni, oggi, della vita di un afroamericano. E immediatamente penso a Ta-Nehisi Coates, tra i più influenti intellettuali neri degli Stati Uniti che riflette con onestà e coraggio su razza e discriminazioni nell’America di oggi, convinto di quanto ancora sia pericoloso essere nero in un Paese che non ha mai davvero sconfitto il pregiudizio razziale. E che resta latente, pericolo sotterraneo ed insidioso, ed esplode in episodi eclatanti o veloci notizie di sfondo a questioni giudicate più urgenti, ma che sono il simbolo secondo Coates ed altri, di un sentimento razzista mai del tutto estirpato.
Oggi siamo chiamati ad indignarci per discriminazioni differenti, atti violenti o pregiudizi legati al sesso, all’orientamento sessuale, alla razza, colpe che vengono messe in ombra da problemi più urgenti come il terrorismo, il clima di terrore e violenza con cui la società contemporanea è costretta a fare i conti; in un’assurda scala di valori sono queste le tragedie che indignano il mondo occidentale, ma nella coscienza di ognuno di noi deve esserci spazio per rifiutare qualsiasi forma di violenza, discriminazione, sopruso. E fingere che l’America – solo per restare entro i confini tracciati da King e Coates, ma non è, purtroppo, un problema soltanto statunitense – abbia definitivamente vinto la battaglia contro il razzismo è, con buona probabilità, una visione ingenua, quando non ipocrita. Personalmente, sono un’ottimista per natura, ho fiducia nell’uomo e credo che un giorno nessuno di noi sarà più giudicato sulla base del colore della pelle, del credo religioso, delle preferenze sessuali o per qualsiasi altra cosa che non sia il proprio carattere, il rispetto della legge e del prossimo; ma è sbagliato, a mio avviso, rifiutare di vedere la realtà, così come è sbagliato coglierne soltanto gli aspetti più negativi. Ed è, anche, rileggendo libri come questo, riscoprendo i passi che hanno portato al cambiamento, riflettere sulle parole dei nuovi protagonisti della scena intellettuale, che possiamo farci interpreti più attenti del mondo che ci circonda e provare a cambiarlo, ancora. A partire dal messaggio di pace e speranza promosso da King, che in un momento storico di soprusi contro i neri si era fatto paladino della non violenza: sarebbe stato facile rispondere all’odio con l’odio, ma quelle marce ordinate, scandite dalla fierezza del silenzio o dall’emozione dei canti, erano la sfida ad un sistema basato sulla violenza e l’odio razziale, combattuta con l’arma potente della pace, della speranza, della disobbedienza civile di centinaia, migliaia di neri che per la prima volta nella storia «osavano guardare l’uomo bianco fisso negli occhi».
Nelle pagine di King leggiamo dei preparativi, delle attese e dei ritardi, dei timori e della fede che vacilla ma della certezza, alla fine, che il cambiamento è possibile, grazie all’impegno di tutti, perché troppo importante ed urgente il bisogno che li guida:
Di Debora Lambruschini
Nelle pagine di King leggiamo dei preparativi, delle attese e dei ritardi, dei timori e della fede che vacilla ma della certezza, alla fine, che il cambiamento è possibile, grazie all’impegno di tutti, perché troppo importante ed urgente il bisogno che li guida:
[…] una bambina di non più di otto anni, che un giorno camminava con sua madre a una dimostrazione. Un poliziotto divertito si chinò verso di lei con scherzosa rudezza, e le disse: Cosa vuoi? La piccola lo guardò negli occhi e senza alcuna paura rispose: Libertà.
E proviamo a comprendere le ragioni dietro la scelta di quel momento esatto, di una situazione sempre più tesa perché alle promesse non sono seguiti immediati i fatti, nel Sud che dopo la fine della segregazione si scontra ancora con il fortissimo sentimento razzista, così profondamente radicato nella società. A chi gli chiede perché proprio ora, perché non aspettare tempi magari più maturi e pronti ad accogliere il cambiamento, la risposta di King risuona forte e chiara:
Forse per coloro che non hanno mai sentito i pungenti dardi della segregazione, è facile dire: «Aspetta». Ma quando hai visto folle malvagie linciare tua madre e tuo padre e annegare le tue sorelle e i tuoi fratelli per capriccio; quando hai visto poliziotti pieni d’odio maledire, prendere a calci e perfino uccidere le tue sorelle e i tuoi fratelli di pelle nera, quando hai visto la stragrande maggioranza dei tuoi venti milioni di fratelli Negri soffocati nella gabbia ermetica della povertà nel bel mezzo di questa società opulenta; quando improvvisamente ti si contorce la lingua e la parola si fa esitante, mentre cerchi di spiegare a tua figlia di sei anni la ragione per cui lei non può andare nel parco dei pubblici divertimenti che ha appena visto alla televisione […]Quando sei umiliato, giorno dopo giorno, da insegne che ti tormentano con le scritte bianchi e di colore […] sei costretto a vivere costantemente in punta di piedi.
Vivere in punta di piedi. Mi ha particolarmente colpita questa frase, simbolo di un male che giace appena sotto la superficie, non del tutto sconfitto, ma così fortemente radicato da far temere per la propria vita, ancora oggi, ad alcuni livelli di quella società per certi versi così aperta e tollerante, per altri ancora colpevole di discriminazione e soprusi. Come se essere nero, in qualche modo, volesse dire stare costantemente in allerta, attenti a non infrangere la più banale delle leggi nel timore di non essere trattato da eguali, giudicato per il tuo errore allo stesso modo di chiunque altro; vivere in punta di piedi, sperando di non doversi scontrare mai apertamente con l’ignoranza e il razzismo.
Per quel che concerne più specificatamente la recente edizione italiana del libro di King, siamo senza dubbio riconoscenti alla casa editrice che ha recuperato un testo - nella sua interezza - da tempo non più disponibile in traduzione italiana a cui ci sentiamo di fare solo due piccoli appunti: il primo, la presenza di qualche refuso di troppo che qui e là interrompono il piacere della lettura - e di una prosa resa con una certa eleganza dal buon lavoro di traduzione - e in secondo luogo la mancanza di un apparato critico-bibliografico - cosa di cui, mi rendo conto, mi lamento decisamente spesso - che senza dubbio per testi di questo genere risulta particolarmente utile, essenziale arriverei a dire, per meglio collocare l'opera nel contesto storico e letterario e fungere per il lettore da utile strumento di ricerca e approfondimento.
Tornando ai saggi, nelle parole di King si leggono anni di soprusi e violenze, i timori per la propria vita e quella delle persone care, la sofferenza e la solitudine del carcere di quei giorni a Birmingham da cui scrisse la celeberrima Lettera inclusa in questa raccolta, gli attentati, le morti. La delusione di fronte alle promesse non mantenute e ad una politica troppo cauta, moderata, che temendo le altre forze del Paese sacrifica l’etica e la democrazia. Ma accanto a delusione, rabbia, scene di violenza e soprusi, le parole di King sono quelle piene di speranza di un uomo di fede, in Dio e negli uomini, diventato un simbolo nella lotta contro la discriminazione razziale che si indigna «per il silenzio dei buoni» e che, nonostante tutto, non perde mai davvero la fiducia nell’importanza della causa di cui si è fatto portavoce, sicuro del fatto che «una volta, in un giorno d’estate, un sogno divenne realtà».
Foto ©Debora Lambruschini |
Di Debora Lambruschini