di Elizabeth Strout
Einaudi, 2016
pp. 168
€ 17,50 (cartaceo)
È la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto. Ma se mentre scrive questa storia sentirà che sta proteggendo qualcuno, si ricordi: c'è qualcosa che non va. (p. 90)
Stravolge e coinvolge per limpidezza, il nuovo romanzo di Elizabeth Strout. E dire che la trama è controversa, e si comprenderà solo oltre metà del romanzo quali segreti si celano dietro la vita di Lucy Barton e di sua madre.
Prima il lettore resta al capezzale di Lucy, origlia quasi impunemente i pettegolezzi che madre e figlia si scambiano su persone che abitavano al vecchio paese da cui Lucy se n'è andata. E viene il dubbio che Lucy non se ne sia andata del tutto: è la miseria della sua infanzia, quando viveva in un garage, a riaffiorare nei ricordi e ad averla tanto condizionata nella sue scelte di vita e sentimentali. Ma tutto questo resta nel dialogo silente tra sé e sé: con la madre, che non vede da anni, meglio fermarsi alla superficialità delle riflessioni più indolori e neutrali. Eppure, anche da quei discorsi apparentamente sicuri riemergono i sentimenti di una per l'altra: l'appellativo "Bestiolina", con cui la madre si rivolge sempre a Lucy, lascia pensare a una comunicazione che non si sia mai realmente interrotta; ma l'amarezza di certe battute di Lucy contrattacca e conferma tutto l'irrisolto.
Dalla dimensione delle parole, si passa a quella dei gesti, che contraddicono questa incomunicabilità e anzi sembrano dire il "ti voglio bene" che è tanto complesso pronunciare: la preveggenza sfocata e l'insonnia della madre, il suo tentativo di accudimento nel cercare Lucy lungo i sotterranei labirintici dell'ospedale, la ricerca costante di non urtare l'una la sensibilità dell'altra. Una vera e propria rincorsa degli affetti, ostacolata da continue discrasie: il doloroso disordine della memoria, tra presente e passato, la speranza della guarigione e la statica disperazione del letto d'ospedale; la pratica segretissima (e fiera) della scrittura e il timore di proclamare il proprio essere scrittrice, davanti alla madre, debole lettrice.
Oltre a questo racconto di «forme imperfette d'amore», il tema della scrittura entra con note metaletterarie sul romanzo: Lucy era timida, quasi non osava pronunciare il suo nome, né leggere i suoi scritti a Sarah Payne, celebre ma schiva scrittrice conosciuta per caso, di cui Lucy frequenterà un workshop creativo. Ma proprio lì emergerà la storia - questa storia ospedaliera, d'amore familiare, nonostante tutto -, una storia che va incoraggiata, perché Lucy riesca a dire "io" e a ripercorrere in un romanzo un episodio dolceamaro, a tratti crudele, della sua vita. Tra romanzo e metaromanzo, il risultato è questo titolo semplicissimo e, al tempo stesso, stranamente enigmatico Mi chiamo Lucy Barton. Ma leggetelo con calma, e presto quel nome e cognome vi sembreranno conosciuti. Anche questo è il potere della grande letteratura.
GMGhioni
Prima il lettore resta al capezzale di Lucy, origlia quasi impunemente i pettegolezzi che madre e figlia si scambiano su persone che abitavano al vecchio paese da cui Lucy se n'è andata. E viene il dubbio che Lucy non se ne sia andata del tutto: è la miseria della sua infanzia, quando viveva in un garage, a riaffiorare nei ricordi e ad averla tanto condizionata nella sue scelte di vita e sentimentali. Ma tutto questo resta nel dialogo silente tra sé e sé: con la madre, che non vede da anni, meglio fermarsi alla superficialità delle riflessioni più indolori e neutrali. Eppure, anche da quei discorsi apparentamente sicuri riemergono i sentimenti di una per l'altra: l'appellativo "Bestiolina", con cui la madre si rivolge sempre a Lucy, lascia pensare a una comunicazione che non si sia mai realmente interrotta; ma l'amarezza di certe battute di Lucy contrattacca e conferma tutto l'irrisolto.
Dalla dimensione delle parole, si passa a quella dei gesti, che contraddicono questa incomunicabilità e anzi sembrano dire il "ti voglio bene" che è tanto complesso pronunciare: la preveggenza sfocata e l'insonnia della madre, il suo tentativo di accudimento nel cercare Lucy lungo i sotterranei labirintici dell'ospedale, la ricerca costante di non urtare l'una la sensibilità dell'altra. Una vera e propria rincorsa degli affetti, ostacolata da continue discrasie: il doloroso disordine della memoria, tra presente e passato, la speranza della guarigione e la statica disperazione del letto d'ospedale; la pratica segretissima (e fiera) della scrittura e il timore di proclamare il proprio essere scrittrice, davanti alla madre, debole lettrice.
Oltre a questo racconto di «forme imperfette d'amore», il tema della scrittura entra con note metaletterarie sul romanzo: Lucy era timida, quasi non osava pronunciare il suo nome, né leggere i suoi scritti a Sarah Payne, celebre ma schiva scrittrice conosciuta per caso, di cui Lucy frequenterà un workshop creativo. Ma proprio lì emergerà la storia - questa storia ospedaliera, d'amore familiare, nonostante tutto -, una storia che va incoraggiata, perché Lucy riesca a dire "io" e a ripercorrere in un romanzo un episodio dolceamaro, a tratti crudele, della sua vita. Tra romanzo e metaromanzo, il risultato è questo titolo semplicissimo e, al tempo stesso, stranamente enigmatico Mi chiamo Lucy Barton. Ma leggetelo con calma, e presto quel nome e cognome vi sembreranno conosciuti. Anche questo è il potere della grande letteratura.
GMGhioni