I venerdì da Enrico's
(Fridays at Enrico's, 2014)
di Don Carpenter (a cura di Jonathan Lethem)
traduzione dall'inglese di Stefano Bortolussi
Frassinelli, 2015
pp. 372
(Fridays at Enrico's, 2014)
di Don Carpenter (a cura di Jonathan Lethem)
traduzione dall'inglese di Stefano Bortolussi
Frassinelli, 2015
pp. 372
Una volta qualcuno ha detto che la felicità è qualcosa di simile a un sottilissimo strato di cioccolato all'interno di una torta, di cui si avverte la presenza ma che è impossibile separare dal resto per gustarlo appieno (no, è inutile che cerchiate su Wikiquote, l'ha detto una mia compagna alle medie). Per quanto la felicità sia, proprio in senso ontologico, un costrutto soggettivo, è comunque qualcosa di cui non è dato disporre completamente, nonostante qualsiasi sforzo profuso in quella direzione.
Di insoddisfazioni, ambizioni naufragate, seconde occasioni e ricollocamenti esistenziali parla I venerdì da Enrico's, scritto da Don Carpenter nei primi anni Novanta, poco prima di morire suicida, e pubblicato negli Stati Uniti nel 2014 dopo l'affidamento del manoscritto a Jonathan Lethem che ha operato una revisione generale e ha elaborato il finale, come lui stesso spiega nell'interessante postfazione.
Il romanzo, ambientato nella costa occidentale degli Stati Uniti negli anni dal 1960 al 1975, segue le vicissitudini di alcuni scrittori (o aspiranti tali) impegnati nella loro personale pursuit of happiness, tra pubblicazioni rifiutate, gestione della routine quotidiana, progetti di scrittura del Grande Romanzo Americano naufragati in compromessi con la fagocitante industria dell'intrattenimento hollywoodiana.
Su questo mondo di belle speranze e grandi aspettative incombe il miraggio della scena beat di San Francisco, modello inarrivabile ma costantemente presente, riferimento sociale e culturale di rilievo assoluto, con i cui protagonisti principali è d'obbligo millantare frequentazioni e confidenza, infilando con nonchalance i nomi di Jack, Allen, Lawrence, Gregory in qualsiasi conversazione, come fossero parole magiche che all'istante stabiliscono una (presunta) appartenenza a quell'ambiente e consentono di apparire, in ambito intellettuale, un po' più intellettuale degli altri.
E poi, immancabile, compare quello che molti definiscono un elemento tristemente essenziale della letteratura americana, ovvero l'alcol, onnipresente, devastante e imprescindibile (c'è anche un bel po' di marijuana, d'altra parte siamo negli anni Sessanta), gemello siamese di quella thirsty muse di cui parla Tom Dardis - citato anche da Fernanda Pivano nel suo Viaggio Americano - che ha fatto strage del talento di moltissimi scrittori (e attori, e musicisti...) americani. Il bar che dà il titolo al libro, Enrico's, è a tutti gli effetti un simbolo, la sintesi di una sequela infinita di locali verso cui tutti, ma proprio tutti i protagonisti del romanzo, approdano. Ed è proprio dopo un iperalcolico "venerdì da Enrico" che Jaime, l'unica fra i personaggi che sia riuscita - inaspettatamente - a raggiungere il pieno successo come scrittrice, si rende conto, svegliandosi in un letto non suo in preda all'ennesimo hangover, di aver fallito nel compito di genitore, dovendo giustificare alla figlia quindicenne le continue trasgressioni, in un surreale e paradossale scambio di ruoli che la costringe a riflettere sulle proprie scelte di vita.
Un romanzo amaro e impietoso, un ritratto tristemente realistico della scena letteraria della West Coast. I venerdì da Enrico's è un capolavoro per la vivacità dei dialoghi, lo spessore dei personaggi e la capacità dell'autore di sondarne l'inconscio; Carpenter lascia un libro superlativo, coinvolgente, senza la minima traccia di banalità. È lo stesso Lethem, nella postfazione, a riconoscere quanto Carpenter fosse un maestro nel ricreare ambienti e situazioni (il carcere, gli Studios di Hollywood, le aule dei corsi serali per adulti). Tutto è essenziale, ruvido e diretto, drammaticamente reale, come a ricordarci che il mondo in cui viviamo non deve piacerci per forza.
E che lo strato di cioccolato, per quanto sottile sia, dobbiamo farcelo andare bene.
E che lo strato di cioccolato, per quanto sottile sia, dobbiamo farcelo andare bene.
Stefano Crivelli