La guerra è finita
di Lucia Guarano
round robin, 2015
302 pp.
14,00 €
Anna e Mia, amiche dall'infanzia, vivono assieme la terribile primavera del 1977. Siamo a Roma, l'Università Sapienza è occupata, la guerriglia è nelle strade, nelle assemblee del Movimento Studentesco che galleggia tra slogan inefficaci e manovre azzardate, tra case diroccate, facili nascondigli per pistole pronte all'uso e siringhe da ultima dose.
Anna è la povera, la coraggiosa: orfana di un padre portinaio suicidatosi per debiti di gioco e abbandonata dalla madre «scappata in Belgio con il suo amante». Mia è la ricca, la viziata, la codarda. Il paparino avvocato, vero cattivone della vicenda, ha denunciato il genitore di Anna facendogli perdere il lavoro. Mia non glielo può perdonare, è troppo, persino per una pavida come lei. Così a diciotto anni compiuti sbatte la porta di casa e giura di non farsi più rivedere. Beata gioventù. Le ragazze andranno a vivere – poverine – nell’appartamento che la madre di Mia le ha lasciato in eredità. Niente di comparabile all’«enorme casa» di famiglia: un ‘modesto’ «attico scelto proprio per via della sua splendida vista su Villa Torlonia». La madre della ragazza era dotata di una sensibilità rara, un vero spirito artistico come oggi, ahinoi, non ce ne sono più. Era una che traeva ispirazione dalle passeggiate lungo i viali del suo parco personale – amanti dell’Ottocento letterario tenetevi forti – una che faceva «lunghe camminate al tramonto prima di correre su a casa (proprio così!) per sedersi al pianoforte e iniziare a comporre una delle sue melodie». No, non vi siete sbagliati, non è il seguito di Cinquanta sfumature di giallo, rosso, verde o blu, non è un libro sentimentale, sdolcinato, scritto con una retorica imbarazzante. È, secondo l’autrice, un romanzo sugli anni di piombo, sulla guerra civile, soprattutto è una storia d’amicizia.
Se i denti non vi si sono ancora cariati (con la storia della mamma compositrice siamo solo a pagina 24) e se non resistete alla tentazione di scoprire gli spoiler che seguiranno, potete continuare la lettura. Ne vedrete delle belle. Leggerete dell'amicizia profonda tra la figlia dell’avvocato e quella del portinaio, amiche per la pelle, amiche per la vita, così amiche da indossare pure due kefiah identiche, rubate – colpo di scena per gli spiriti romantici! – da Mia, la pavida che poi così pavida non è, in una bancarella del centro «due anni prima». Eh sì, perché Anna e Mia si vogliono un gran bene, condividono tutto, fumano sigarette e marijuana sul davanzale della finestra di casa, si raccontano ogni cosa. Peccato che questa grande amicizia paia incrinarsi a causa delle lotte studentesche. Peccato, perché Mia, a fare la rivoluzionaria, si era davvero impegnata, con un discorso fatto ai «compagni del movimento» nelle aule dell’università, un discorso da pelle d’oca:
«Loro ci fanno la guerra e noi come dovremmo accoglierli? A braccia aperte? […] Assolutamente no, ma io mi dico…sospendiamo il giudizio fino a domani. Aspettiamo un giorno e lanciamogli una sfida, l’ultima, sul terreno dei contenuti. […] Ascoltiamo cosa hanno da dire prima di assumere una linea definitiva.»
L’ars retorica non manca di certo a questo personaggio quasi-laureato in giurisprudenza. E i compagni, rincuorati da una leader di simile portata, annuiscono soddisfatti in attesa della prossima baruffa. Poi ci sono le crisi esistenziali, le identità da costruire ché, a venticinque anni suonati, bisognerà pure diventare grandi. Mia è preda di dubbi amletici: «Dovevo decidere [….] capire se essere come lei o accettare che non lo sarei stata mai. Correre da lei o lontano da lei». La povera figlia di papà che gioca a fare la rivoluzionaria non sa proprio che strada intraprendere: non capisce se deve seguire quella scalmanata di Anna o pensare con la propria testa. Ma, altro colpo di scena! Quattro pagine dopo, davanti a uno specchio, la nostra protagonista pare avere un’epifania:
«guardavo me stessa, l’immagine della persona che ero diventata. E stentavo a riconoscermi. Poi, di scatto, mi chinai e afferrai il secchio con entrambe le mani. Lo sollevai all’altezza delle spalle e lo lanciai con tutte le forze contro lo specchio, facendolo in mille pezzi».
Che liberazione! Ora la ragazza non è più vittima dell’amica saputella con personalità debordante, l’amica esuberante che da piccola ha rotto per errore il vaso della mamma di Mia. Ora anche la timida per eccellenza può vivere la sua vita, gettarsi tra le braccia dell'ultimo venuto perché, si sa, l’amore a prima vista esiste anche tra ragazzini viziati che giocano a fare la rivoluzione. E la nostra Lucia Guarano prepara bene il terreno: «Non mi fermai e non mi voltai a cercare Anna. Volevo solo correre da lui. Da Francesco». L’amore, dunque, è più forte di tutto, il cuore – incredibile! – «martella nel petto, poi in gola», le vene scoppiano, ma la ragazza corre per cercare il futuro fidanzato tra i corridoi della facoltà. E Anna? La grande amica che non si può abbandonare? Dimenticata! Dinnanzi a Francesco (conosciuto da poco) è amore vero, roba da cardiopalma: «mi passò una mano tra i capelli bagnati e subito dopo la lasciò scivolare più in basso». Perché più dell’amicizia contano i sentimenti, quelli veri: «Eravamo soltanto Francesco e Mia. Facemmo l’amore mentre all’università stava continuando la guerra. Avevo lasciato Anna all’inferno». Ah, la nostra Mia. Così innamorata da non riuscire nemmeno a togliersi «l’odore di Francesco dalla pelle», così euforica che durante le manifestazioni contro il governo, lo Stato, la polizia, sa che ormai dovrà «solo urlare e tirare fuori tutto quello che ha dentro». Evviva!
Peccato poi che Anna, l’amica scapestrata, scompaia senza dare più notizie: la si scoprirà eroinomane e ormai perduta sulla strada del terrorismo mentre la polizia trova una pistola nell’appartamento di Mia. Ma niente paura! La ragazza che così timida e impacciata non è, sfodera un coraggio da leone, agisce nel modo più intelligente possibile e si fa condannare ingiustamente a due anni e mezzo di prigione per detenzione di arma da fuoco. Il carcere è duro per le figlie di papà della Roma bene cresciute in un attico con parco. C’è l’isolamento, il buio, nessuno contatto con altri esseri umani se non fosse per una suora dal gran cuore (forse laureata in filosofia data la profondità di certe riflessioni) che – buon’anima – ascolta con pazienza le paturnie di Mia: «noi andiamo dove c’è bisogno e non facciamo domande. Tanto non riceveremmo risposte». Insomma, tutto sta andando male, ma il papà cattivone che guarda caso è avvocato, aiuta la figlia a uscire, prima concedendole una semi-libertà per scrivere la tesi in biblioteca (povera piccina), poi riuscendo a farle ottenere gli arresti domiciliari. L’uomo pensa a tutto, mandando pure un autista che Mia tratta come una pezza da piedi – «se rifai questa cosa da maggiordomo, giuro che ti buco le gomme». La ragazza ha davvero un brutto caratterino: si lamenta con la compagna di cella, povera e analfabeta, accusando quello stronzo di papà di spedirle libri e una macchina da scrivere per terminare gli studi (davvero un uomo crudele) ma poi, per fortuna, rinsavisce. Mia, durante una fuga finale (la nostra eroina è pure riuscita a scappare) scopre che Anna è morta di overdose. Dunque? Che ci sta a fare nel mondo senza la migliore amica? La sua vita non ha più senso. Niente panico! Papà avvocato organizza un gran bel funerale e Mia si scopre scribacchina. Tra le mura del carcere scrive un libro di testimonianza per Anna. Libro che le mostrerà la retta via e che commuoverà tutti. Amen.
Si sa, i movimenti degli anni Settanta avevano poco a che vedere con il Sessantotto. Per Pasolini i nuovi rivoluzionari erano dei «capelloni», dei borghesi travestiti, dei laidi: «vecchie puttane di un’ingiusta iconografia». Mia è una borghesuccia senza nerbo come tante ce ne sono state, come altre ce ne saranno. Il problema non sta qui ma nel fatto che La guerra è finita manchi di qualsiasi spirito critico verso i propri personaggi che finiscono col rendere la narrazione poco credibile, permeata da un'ingenuità gratuita e a tratti ridicola. La storia d’amicizia è sviolinata su uno scenario di cartapesta. Non c’è niente degli anni Settanta. Non le contraddizioni profonde, non il linguaggio. Il clima di angoscia e spavento è qui sostituito da una tensione fintamente grottesca, non c'è la rabbia, quella vera, manca il vuoto di senso, lo scavo profondo. Ci sono solo fatti, personaggetti più o meno dettagliati che agiscono. Manca il resto, ossia la letteratura, lo stile, il perché.
Franco De Renzo e Stefano Gensini, professori alla Sapienza di Roma, hanno presentato il volume allo Strega: La guerra è finita è entrato nella rosa dei ventisette candidati iniziali. L’autrice, Lucia Guarano, è nata a Roma, come del resto tutti i finalisti di quest'anno. Per Antonio Moresco il gioco è «truccato», per Giuseppe Fantasia inutile «rosicare»: di gioco pur sempre si tratta! Sarà. Ma quel che resta, al di là dei premi e delle polemiche, sono i libri. Ci ritroviamo tra le mani un romanzetto dalle tinte pastello: peccato, perché per un momento – almeno per le prime cinque righe – anche noi, ci avevamo creduto.
Franco De Renzo e Stefano Gensini, professori alla Sapienza di Roma, hanno presentato il volume allo Strega: La guerra è finita è entrato nella rosa dei ventisette candidati iniziali. L’autrice, Lucia Guarano, è nata a Roma, come del resto tutti i finalisti di quest'anno. Per Antonio Moresco il gioco è «truccato», per Giuseppe Fantasia inutile «rosicare»: di gioco pur sempre si tratta! Sarà. Ma quel che resta, al di là dei premi e delle polemiche, sono i libri. Ci ritroviamo tra le mani un romanzetto dalle tinte pastello: peccato, perché per un momento – almeno per le prime cinque righe – anche noi, ci avevamo creduto.