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"Io e Henry" in un universo collassato di citazioni

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Io & Henry
di Giuliano Pesce
Marcos y Marcos, 2016


pp. 288
18,00€ (cartaceo)



La casa editrice Marcos y Marcos sta portando avanti la serie di libri intitolati BookSound: storie che possiedono una forza affabulatoria tale da permettere di recuperare l’atavico potere della parola con la lettura a voce alta delle pagine. Alcuni testi di questa serie di libri funzionano perfettamente, riuscendo a incantare anche con la sola lettura silenziosa.
Io e Henry appartiene a questa stessa serie ma non possiede la stessa forza dei titoli sopracitati. Giuliano Pesce (giovane scrittore di 26 anni, già autore de La parziale indifferenza pubblicato nel 2010 dalle Edizioni Il Foglio Letterario) racconta nel suo ultimo libro la storia di Tagliaferro, uomo da poco lasciato dalla moglie, rapita dal fascino intellettuale di un filosofo francese, e che adesso deve appendere al chiodo non solo la sua vita coniugale ma anche quella professionale: il giornalista tutto d’un pezzo di un tempo comincia a sgretolarsi di fronte a un computer dallo schermo perennemente bianco, addormentato e senza ispirazione; in extremis il suo caporedattore gli chiede di realizzare un’ultima intervista al direttore sanitario del Centro di salute mentale Villachiara, sperando di riuscire a cavargli un pezzo decente da pubblicare. Nell’occasione conosce un anziano degente, Henry, che lo ammalia con le sue chiacchiere da matto e che, tra le altre cose, gli rivela di dover recuperare il documento più importante dell’umanità: il Registro-01.

y=x2 è l’equazione che descrive una parabola su un piano cartesiano. Proprio come la parabola descritta da quest’equazione, Io e Henry procede con un inizio accattivante, dove l’incontro improbabile tra un uomo fallito e un anziano pazzo lascia presagire mirabolanti avventure. Pian piano, tuttavia, il tono inizia scendere, così come la funzione procede avvicinandosi allo zero. Si avverte una forte influenza delle storie di Dan Brown ma la sensazione è quella di trovarsi in un universo distopico di indagini storiche e di spionaggio: tra logge massoniche, ricerche di registri segreti e cene in smoking accompagnati da bond girl seducenti, non si riesce più a seguire la coerenza della storia. Sebbene si comprenda palesemente che l’autore abbia fatto molte ricerche preliminari alla scrittura e che abbia nutrito ogni pagina con il sapere accumulato nel corso degli anni, la sensazione che si ha è che l’insieme di nozioni, citazioni, frasi fatte e brandelli di testi servano solo a colmare una sorta di horror vacui narrativo che restituisce, invece, uno sfoggio di cultura artificioso e inconcludente. In una nota a conclusione, l’autore avverte sulla presenza di questo affastellamento nozioni (che lui stesso reputa così numerose da non potere essere elencate puntualmente) usate, a suo dire, per spingere il lettore a soddisfare la curiosità ed effettuare quante più ricerche possibili. Purtroppo nessuna curiosità è stata suscitata, ma a nascere sono state solo stanchezza e noia. 

Eppure una parabola ricomincia a crescere dopo avere toccato lo zero. Lo stesso fa la storia di Io e Henry che proprio sul finale ritorna a sorprendere così come aveva fatto all’inizio, affidata a uno stile di scrittura che non risulta mai banale. Se si potessero eliminare due terzi della storia, il libro sarebbe un originale condensato di teorie, raccontate tramite le vicende personali di due personaggi così male amalgamati tra loro da risultare la quintessenza dell’ironia e dell’imprevedibilità. Ciò che rimane da questo nuovo Io e Henry è, da un lato, una teoria sul rapporto dell’uomo con il mondo, con il nome finalmente palesato della sensazione provata di fronte alla presa di coscienza tra la differenza che esiste tra il mondo come lo si vorrebbe e il mondo com’è: Weltschmerz. Dall’altro, viene raccontata una parabola illuminante sula relatività della follia:
Ci sono una fabbrica di zucchero e una di sale una accanto all’altra. Un giorno il furgone che consegna le confezioni si ferma al numero civico sbagliato. Alla fabbrica di sale recuperano l’anonimo contenitore marrone che contiene le scatole su cui campeggia la scritta zucchero. Da lì tutto è automatizzato: l’uomo passa la palla alla macchina che spacchetta, sbusta, scartoccia, separa, smista e stocca. E In un attimo ti trovi cento pacchetti pieni di sale, con scritto zucchero. Una tenera vecchiettina qualunque comprerà la solita confezione di zucchero. Un girono la figlia andrà a pranzo da lei, con tutta la famiglia. E sputerà la torta al limone, la specialità della mamma, perché è più salata del Mar Morto. La vecchiettina proverà a spiegarsi, a dire che le hanno venduto il sale invece dello zucchero. Ma pensi che le crederanno? O penseranno che è inverosimile e che sta cominciando solo a perdere colpi?
Se un libro esistente non può generarne uno nuovo seguendo i gusti e le inclinazioni del lettore (così com’è giusto che sia), un suo piccolo merito è allora quello di lasciare aperto un piacevole spunto di riflessione.

Federica Privitera