Passeggiate tra natura selvaggia e geometrie neoclassiche
di Tiziano Fratus
Laterza, 2016
pp. 215
Euro 18.00
La persona che scrive questa recensione ha una fobia, piuttosto comune, per gli insetti. Non limitante come altre paure, certo, ma evidentemente foriera di inquietudini, specie nella bella stagione. Se fino a poche settimane fa si era affidata all'efficace esorcismo delle stampe e della bigiotteria a tema entomologico, ora, dopo la lettura di L’Italia è un giardino di Tiziano Fratus, si è persuasa di avere trovato un valido incentivo a vincere i suoi timori con una terapia d’urto che prevedrebbe la visita (meglio: la sosta prolungata) nei luoghi descritti dall’autore. E se pure mette in conto di scoprirsi ancora più vigliacca al cospetto di animaletti striscianti o volanti (magari con l’aggiunta di rinverdite allergie dell’infanzia più lontana) dubita però che potrebbe pentirsi di avere passeggiato in alcuni dei parchi e dei giardini – disseminati su tutto il territorio nazionale – che più mirabilmente godono delle cure dell’uomo da decenni e decenni. Da secoli, addirittura.
Non c’è che da fidarsi, di uno scrittore come Tiziano Fratus, creatore di concetti come “Homo Radix” e “alberografia”, e già firma, sempre per la casa editrice Laterza, di libri quali L’Italia è un bosco. Storie di grandi alberi con radici e qualche fronda e Il libro delle foreste scolpite. Il viaggio tra gli alberi a duemila metri (oltre che di vari altri volumi a tema e della rubrica Il cercatore d’alberi sul quotidiano nazionale “La Stampa”). I suoi consigli circa quali, tra i molti parchi e giardini italiani, andare a visitare trovano presa salda e profonda in un peculiarissimo terreno esperienziale ed emotivo, al punto che anche il lettore meno sensibile alle suggestioni della “verzura” – selvaggia o addomesticata che sia – finirà col desiderare come propri i passi e gli incontri dell’autore con statue, architetture, animali e (perché no?) altri esseri umani in veste di “pellegrini” d’occasione.
Suddiviso in tre sezioni o “radici” – Spazi immensi; Le voci avvolgenti dell’acqua; Natura selvaggia – il libro di Fratus è molto di più di un florilegio di eccellenze topografiche sub specie botanica (ben ventitré, più altri rimandi in coda al volume suddivisi per regione). Ogni brano – da quello dedicato al Parco reale della Reggia di Monza (che apre le danze) a quello sui giardini di Villa Durazzo-Pallavicini e i parchi pubblici di Genova Nervi (che le chiude) passando per Villa Ottelio e il Parco storico di Franforeano in Friuli – è certamente e sempre occasione per raccontare la storia del luogo e della sosta in esso da parte del suo visitatore d’eccezione; il quale, armato di metro per misurare la circonferenza dei tronchi e soprattutto dei suoi sensi accesi, traduce stimoli visivi, olfatti, tattili e uditivi in descrizioni che sarebbe meglio definire mini-racconti. Meglio ancora: quasi dei “paesaggi dell’anima” sgravati però da ogni prevedibile eccesso lirico-elegiaco. Ogni sosta nei parchi e nei giardini prescelti è, soprattutto, occasione per una interrogazione di se stessi che è mutevole nell’origine e nell’esito, alla pari del mutare delle stagioni:
«è curioso come l’ambiente che ci circonda influenzi lo stato del nostro vagare in meditazione. Cambia, se si medita in cima ad una montagna, nuda, pietrosa, esposta al vento, se il sole ti acceca o se è la sera che sta per esplodere sopra la testa. Se siamo circondati da acque che mormorano, da uccelli che cantilenano, o se ci riflettiamo, volto nel volto, in uno specchio d’acqua».
È motivo, ancora, per ipotesi sull’ontologia dell’essere umano, tali da condurre a una ovvia riconciliazione finale della sua componente più “culturale” con quella più “naturale”:
«è curioso come due persone che non si conoscono, attraversando insieme un giardino, finiscano alla fine per parlare di sé, della propria vita, di quel che, in filigrana, sono. Che cosa resta in mano se strofinate? Sabbia? Terra? Cosa? La natura allieta e avvicina, rende più intimi. La prossima volta che litigherò con un amico, dopo, dopo un po’ di tempo, quel che occorre, lo porterò a parlare in un parco, o in un bosco».
Ed è anche, infine ma non da ultimo, interlocuzione sul perché dell’esistenza stessa dei giardini e dei parchi, ovvero di tutte quelle strutture che anche nelle gemmazioni più disomogenee, nelle infiorescenze più selvagge e nei percorsi più intrecciati implicano sempre un intervento intellettuale antropico; il quale, a sua volta e con tutta probabilità, mette parimenti ordine e disordine per un radicato bisogno di "cosmo" e di "caos"che è frutto imperituro di un seme indigeno della psiche umana:
«attraversando questi boschi inventati dalla mente dell’uomo penso a quanto sia curioso che così tante persone d’ingegno, appena possono costruire un’abitazione secondo i propri desideri, finiscano per “tornare al bosco”: lo ricreano proprio là dove era stato cavato via secoli prima. Dev’esserci qualcosa di scolpito, di impresso nel dna della nostra specie, che ci induce a cercare il silenzio e l’ombra degli alberi, il colore delle fronde che cambia da stagione a stagione, per ri-guadagnarli a pochi passi dalle nostre stanze. Non è poi così diverso dal costruire biblioteche»
E ancora:
«inoltrarsi nei giardini coltivati dalle norme del regolo e della squadra, dal metronomo delle stagioni che impartisce fioriture, abbina colori e sfumature, mischia profumi e intenzioni, pone una domanda essenziale: i nostri giardini rispondono ad un bisogno di bellezza condivisa, percepita dall’uomo del nostro tempo sia in quanto esperienza solitaria, sia in quanto rito di passaggio (e di passeggio) sociale? Oppure sono un’opera di celebrazione della natura che l’uomo ha voluto dominare per adattare meglio il paesaggio alla propria presenza? Perché in un giardino l’uomo tenta di ristabilire la foresta, o forme di natura selvaggia popolate di ombre, di felci, di acque scroscianti, come a voler ridefinire un cordone ombelicale che lo riconnetta agli albori del tempo? Da cosa nasce questo bisogno di ritornare indietro nelle epoche? Soltanto da nostalgia? È il risultato della leva della colpa che ha macchiato l’anima della nostra specie? O è ancora qualcos’altro?»
Per scoprirlo non resta, forse, che avventurarsi in prima persona. Tiziano Fratus ci invoglia con le sua prose suggestive e ci è d’aiuto mentre compila delle mini-carte d’identità delle destinazioni proposte, nelle quali, oltre ai dati anagrafici (luogo, comune, provincia, regione, modalità di accesso, costi ed eventuali siti internet) ci consiglia anche la colonna sonora ideale, con la disinvoltura con cui un sommelier abbina il vino alle pietanze lasciando poi che siano i commensali a sperimentare sensorialmente il connubio. Così, anche l’iniziale perplessità (la delusione, forse) di quel lettore convinto di trovare un fascicoletto con qualche bella immagine a colori avrà subito servito il giusto “contrappunto didattico”: perché quando le foto a pagina piena che accompagnano i singoli brani optano per un misterioso bianco e nero, questo, più che mortificare la vista o richiamare l’immaginazione su ipotetici giardini di pietra, sembra porsi proprio come anticamera di una “teoria fantastica dei colori e dei profumi”, da verificare al più presto nel godimento dell’esperienza diretta.
Cecilia Mariani