Il Cacciatore Celeste
di Roberto Calasso
Adelphi Edizioni, 2016
pp. 439
€ 27
Già nel 1969 Émile Benveniste nel suo Il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee si scontrò con la difficoltà di rintracciare una parola comune per indicare il termine "dio" in avestico, greco e latino: "La grammatica comparata, per il suo stesso metodo, porta ad eliminare gli sviluppi particolari per ricostruire il fondo comune. Questo modo di procedere lascia sussistere solo un numero molto ristretto di parole indoeuropee: non ci sarebbe così nessun termine in comune per designare la religione stessa, il culto né il prete, e nemmeno nessuno degli dei personali. Non resterebbe insomma alla comunità se non la nozione stessa di "dio". Quest'ultima è bene attestata solo nella forma *deiwos il cui senso proprio è 'luminoso' e 'celeste'; in questa qualità il dio si oppone all'uomo che è 'terrestre' (tale è il senso latino homo)". Da questo presupposto, da questa difficoltà e mutevolezza di rintracciare un termine comune per "dio", parte il libro Il Cacciatore Celeste di Roberto Calasso, uscito per i tipi Adelphi. Il Cacciatore Celeste è una peregrinazione, ora oscura ora luminosa, fra le storie sugli dei che, attraverso i secoli e toccando svariati popoli, sono arrivate fino a noi.
Roberto Calasso realizza libri che paiono essere formati attraverso due filoni narrativi: il primo, più tradizionale, è la citazione e la ricollocazione, per sostenere il pensiero di fondo (quello che muove l'intera opera), di episodi desunti dalla grande tradizione ora classica ora vedica ora "moderna". Il secondo, sotterraneo e maggiormente estemporaneo, è costituito da frasi e pensieri spesso brevi, non più di un paragrafo che, come squarci improvvisi di luce all'interno di una gelida caverna, ci illuminano sul peso specifico che quel tema, quella conquista del pensiero o quel ragionamento rivestono per lo stesso autore. Questo libro non si discosta troppo da tale eccentrico schema: si passa, senza soluzione di continuità, dalla classica trattazione dei miti greci (utilizzando una grandissima varietà di fonti, prendendo a piene mani, cosa non così comune anche in libri di tal guisa, dalla letteratura cristiana e pagana della tarda latinità), all'antropologia storica e culturale. Si parla ora della macchina di Turing ora ci si trova a trattare di mistica vedica partendo dal presupposto che, ovunque ci si trovi e a qualsiasi cultura o popolo ci si avvicini, si è sempre sotto lo stesso cielo, illuminati sempre dallo stesso sole e rischiarati dalle medesime stelle.
Il Cacciatore Celeste è un libro sulle trasformazioni, sulle trasformazioni che gli dei e gli uomini hanno compiuto nel corso delle generazioni. La metamorfosi, pare dirci Calasso, è il tratto più netto che unisce la parte terrestre a quella celeste: così come Zeus, per sedurre le sue tanti amanti terresti, si tramuta in toro, pioggia d'oro e, addirittura, in uomo, anche gli homini della Preistoria, per poter passare dal ruolo di prede a quello di cacciatori (anzi di Cacciatori totali e globali, con la lettera maiuscola) debbono travestirsi da quelle stesse belve e fiere che tanto li terrorizzano. Ecco perché nelle pitture rupestri c'è tutto quell'abbondare di colossali mammut, di temibili tigri dai denti a sciabola e animali in genere. Perché senza la metamorfosi in qualcos'altro, homo sarebbe rimasto quello che era: un essere come tanti, anzi più debole e meno attrezzato degli altri per la sopravvivenza. Ecco allora che l'uomo s'inventa il mito: quella caverna delle origini passa da essere una semplice tana a divenire la prima quinta del mondo conosciuto. Sulle pareti di roccia gli uomini diventano altro, per avvicinarsi meglio al cielo, per alzare il capo e riconoscere le stelle tra Sirio ed Orione, non basta diventare come gli animali della nuda terra: gli uomini debbono essere quegli stessi animali. Per compiere ciò bisogna creare miti e religioni abbastanza potenti da metamorfizzare la propria natura di esseri viventi: diventando animali, gli uomini si scoprono Homini, qualcosa di diverso nel ciclo della creazione.
In Django Unchained film di Quentin Tarantino del 2012, si comprende bene questo passaggio. Il protagonista, Django, uno schiavo quindi considerato "poco più che un animale" per poter portare a compimento la propria missione, ovvero liberare sua moglie, la bella Broomhilda, non può affidarsi soltanto al piano normale del reale. Certo, è animato da una feroce vendetta nei confronti degli aguzzini schiavisti che hanno rapito la consorte ma questo non basta per compiere un'impresa, per potersi veramente evolvere dal ruolo di colui che subisce a colui che agisce. Per farlo ha bisogno della potenza creatrice del mito: perciò il mito di Broomhilda e Sigfrido fa al caso suo. Anche in quest'occasione l'uomo per potersi mutare in qualcos'altro, verrebbe quasi da dire per evolversi ed elevarsi in qualcos'altro, ha bisogno di una storia.
Il Cacciatore Celeste è così un libro di tante storie sparse e varie. Questo fatto rende particolarmente affascinante accostarsi a tale volume che può essere affrontato senza un preciso ordine logico. Infatti i quattordici capitoli in cui è diviso possono essere letti anche non in ordine consequenziale ma, proprio come una storia, una favola o, giustappunto, un mito possono essere citati e assimilati come si vuole. Lo stile è ricco ma mai contorto perché Calasso ha come stella polare che lo guida l'intenzione di dire "anche le cose più difficili nel modo massimamente chiaro e massimamente luminoso possibile". Ecco allora che anche quando si parla della filosofia di Plotino, nel decimo capitolo, intitolato "Il contemplante", si tenta sempre di ricondurre i pensieri del greco all'attualità, non per spregiare gli alti ragionamenti ma per infondergli nuova vita: questo non è un testo di simulacri senza sangue, ma è materia pulsante ed elettrica che si dipana davanti a noi. Come si può leggere in questo passaggio:
"Gli uomini, quando sono deboli nella contemplazione, creano l'azione [tèn praxein poiuntai] come un'ombra della contemplazione e del lόgos". L'azione dipende da una "debolezza dell'anima" , che rende impossibile raggiungere "una visione adeguata, che riesce a colmarli". Perciò gli uomini passano all'azione, perché "desiderano vedere ciò che con la mente non sono riusciti a vedere". Sembra quasi che Plotino abbia qui percepito, in lontananza, il rumoreggiare di Cieszkowski e Marx e tutti gli altri numerosi e turbolenti fautori della praxis, per opporgli da subito una teoria che è il loro antitipo". E, come se si rivolgesse a loro, ribadisce il punto: "Sempre constateremo che la creazione e l'azione sono un indebolimento o una conseguenza secondaria della contemplazione".
Il volume di Adelphi è l'ennesima conferma della verve e della sterminata conoscenza di Calasso delle "cose del mondo, degli uomini e degli dei". Quindi questa è una lettura consigliatissima per chi, parafrasando una battuta del film Interstellar di Christopher Nolan, denuncia il fatto che: "Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango". Calasso, partendo dal fango delle paludi primordiali, dalla pelle degli animali preistorici, dalle orme dei nostri progenitori sulla terra, ricostruisce il cielo e tutte quante le stelle.