La Regina Ginga
di José Eduardo Agualasa
Lindau, 2016
Traduzione di Gaia Bertonieri
pp. 214
€ 17
In alcuni casi le storie, sia esse
vengano raccontate attorno ad un fuoco oppure lette su di un libro oppure su un
ebook-reader, sono una somma di diverse storie. Magari, ed accade in pochi
casi ma sono quelli i casi più da serbare nella memoria, questi gruppi di
storie che formano una storia sono spiegati in modo semplice e dolce, come il
chiaro gorgogliare di un torrente nel verde della campagna. Questo è il caso di
La
regina Ginga e come gli africani inventarono il mondo di José Eduardo Agualasa, uno dei più
importanti scrittori angolani in lingua portoghese della sua generazione. La Regina
Ginga è la storia di Francisco José da Santa Cruz, prete fresco di seminario sbarcato
in Angola del 1620. Assieme a lui diventiamo protagonisti di un mondo,
quelle delle colonie portoghesi del 1600 fatto di orizzonti tropicali, oceani
che si attraversano in lungo e in largo e tutto l’esotismo e il fascino della
cultura dell’Angola, anche chiamata Etiopia occidentale. La Regina Ginga e come
gli africani inventarono il mondo è quel genere di storie che, alla stregua di
una fattura o di un incantesimo ben riuscito, ti avviluppano e tengono strette
a te, come un amante geloso o come la più coraggiosa delle madri: questo libro
è un viaggio attraverso i continenti e gli animi degli uomini.
Partiamo da alcuni fermi di un libro
che, in generale, è consigliatissimo sia da portare al mare, per una lettura
rilassante e piena di riferimenti a Paesi poco conosciuti, sia per una lettura
più approfondita, dato che Agualasa riesce nella massima chiarezza a dire il
massimo numero di cose. Ed è proprio questa una delle impressioni che, con più
viva forza, emergono con chiarezza una volta terminato il libro. Agualasa,
figlio di padre portoghese e madre brasiliana, incarna quasi biologicamente il
coté della colonizzazione portoghese che, è sempre bene ricordarlo, ha
interessato una larghissima porzione del globo andando dal Brasile alla,
giustappunto, Angola, dall’India alla Cina. Ed ecco che in questo gran ballo di
navigatori, pirati, stregoni, guerrieri e santi Agualasa si inserisce perfettamente presentando
al lettore la storia, seducente, di un padre cattolico inviato in missione in
Africa.
Padre Francisco José da Santa Cruz non è
il classico eroe da romanzo. Infatti nel libro si evidenziano sia i pregi, l’indole
buona e la vicinanza con le sofferenze degli altri, sia i difetti del
religioso, certe volte la codardia e una certa indolenza che non lo smette mai
di accompagnare, che lo rendono molto umano, forse, troppo umano. Agualasa, e questa è una delle caratteristiche più
interessanti dello scrittore, esprime nella descrizione e nelle azioni di
Francisco tutta la grandezza del suo stile che, perfettamente reso dall’eccellente
traduzione di Gaia Bertonieri, non è mai sforzato o barocco, ma si dipana piano
e sinuoso lungo le pagine del libro. Non ci sono picchi od eccessivi vertici
nella sua scrittura, ma è sempre costantemente circoscritta, perfetta e inattaccabile
ma non fredda e senza vita: pur essendo palpitante e ricca di contenuti è
lineare ed elementare, alla portata di tutti.
La storia, di per sé, è ricca di
capovolgimenti con Francisco che, ben presto, entrerà sempre èiù a contatto con
gli usi, i costumi e la società angolana, anche grazie alla conoscenza di
Ginga, l’ineffabile regina/re del Dongo. Ad esempio, durante una breve interruzione
delle attività belliche tra portoghesi e angolani, si può leggere:
La stagione delle piogge era finita da poco. La luce risplendeva sulla lamine profumata dell’erba. I grandi alberi scoppiavano, carichi di frutti ed uccelli. Gli indios guardavano molto incuriositi i baobab, il cui tronco enorme spiccava in lontananza, come l’alta e larga prua di una nave che si solleva su un mare verdissimo. Uno degli schiavi, che chiamavano Colombolo (gallo), perché girava sempre intorno alle schiave più belle, scalò il baobab portandosi dietro un vaso e riportandolo pieno d’acqua. Questi alberi sono molto utilizzati come cisterne, poiché possono immagazzinare molti galloni di liquido nella cavità dei loro tronchi colossali. Rafael seguì l’esempio dello schiavo e scomparve tra i fogliamo. (…) Lo seguì anch’io. (…) Rafael si era tolto i vestiti e si era tuffato. Lo trovai che galleggiava a pancia in su, sull’acqua color rame, attraversata da un filo di luce. C’era più pace lì dentro – più pace e più bellezza – che in qualsiasi cattedrale. In quell’istante ebbi una visione e mi apparvero davanti tutti i morti futuri delle guerre in Angola. “Questo non è giusto!” mormorai. Rafael si svegliò dal suo sogno. Alzò gli occhi: “Cosa non è giusto?”. “Questa cosa che gli uomini si uccidono gli uni gli altri per una manciata di argento, o per poter schiavizzare e vendere altri uomini. Tutta la smisurata avidità, la ruota infinita di violenze e atrocità. La felicità è così semplice, non vedi?! Un po’ d’acqua, un po’ di luce. Dimmi se c’è dell’oro in grado di pagare un miracolo come questo…”. (…) “L’avidità fa muovere il mondo. Senza quest’avidità che tanto ti affligge, l’uomo non sarebbe altro che questi poveri uccelli (…) L’avidità ci ha tolto dalla selva e ci porterà fino alle stelle”. “Quando saremo sulle stelle sentirò nostalgia delle stelle”.
Questa lunga citazione è utile per
capire ancora meglio lo stile dello scrittore. Come si può evincere pur non
utilizzando un lessico particolarmente forbito discorre, senza difficoltà, di altissimi
temi. È proprio questo il valore del libro: non soltanto è una storia avvincente,
un’avventura esotica alla stregua delle peripezie di Zio Paperone o Indiana
Jones alla ricerca di tesori per il mondo, ma è anche un tragitto all’interno
dell’animo umano, senza tacere nulla, né i grandi slanci né le insondabili
bassezze.
Una favola africana con i piedi posati
nella giungla e gli occhi rivolti al cielo è quello che serve al giorno d’oggi
quando, troppo indaffarati nell’osservare non più in là del nostro naso, non ci
accorgiamo di avere un intero mondo attorno a noi.
Mattia
Nesto