Le Olimpiadi come religione moderna
di Jürgen Moltmann
Edizioni Dehoniane, 2016
pp. 48
€ 6
Olimpiadi Messico 1968. Tre uomini con un semplice gesto decidono di mostrare al mondo che la paura non può nulla quando c’è in ballo la libertà. Sono Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos, i primi tre arrivati della bellissima finale olimpica dei 200 metri. Quel giorno però non conta solo la gara, perché le Olimpiadi sono una vetrina unica per parlare al mondo di diritti umani. Così, al momento della premiazione sul podio, i due americani Smith e Carlos indossano un guanto nero a testa e lo alzano verso il cielo. Due pugni al cielo per lottare contro la discriminazione della popolazione nera americana. Sul podio, oltre ai due americani, c’è anche un terzo protagonista, Peter Norman. Viene dall'Australia, un paese in cui le leggi sull'apartheid sono durissime: bianchi da una parte, neri e aborigeni dall'altra.
Prima della premiazione dice ai due americani: "Datemi uno dei vostri distintivi. Sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti". Quando sale sul podio mostra al petto con coraggio e convinzione lo stemma del "Progetto olimpico per i diritti umani". Per quel gesto di libertà i tre atleti verranno emarginati. Smith e Carlos vengono cacciati dal villaggio olimpico e poi più volte minacciati. Peggio va all'australiano Norman: viene subito isolato dalla sua federazione che gli impedisce di partecipare alle successive Olimpiadi di Monaco del 1972. Con il tempo per lui le cose non cambieranno. Ventotto anni più tardi, per entrare nel comitato olimpico di Sydney 2000 gli chiedono di scusarsi; Norman non lo fa e continua a essere considerato un nemico. Nel 2006 Norman muore in seguito a un arresto cardiaco: a portare a spalla la sua bara ci sono i suoi due grandi amici, Smith e Carlos, che non lo dimenticheranno mai.
Di libertà, amicizia e diritti umani tratta Le Olimpiadi come religione moderna, breve saggio di Jürgen Moltmann, uscito originariamente nel 1989 nella rivista "Concilium" e recentemente pubblicato dalle Edizioni Dehoniane, in occasione di Rio 2016. Il teologo tedesco afferma che le Olimpiadi posseggono un ricco potenziale di protesta contro la violenza e l’umiliazione razzista degli individui. Nei Giochi olimpici, infatti, gli atleti rappresentano un mondo di competizione pacifica, di reciproco riconoscimento e di amicizia, che prospetta un’alternativa a quel mondo reale in cui viviamo e per cui soffriamo. Le Olimpiadi sono un preludio di speranza per una vita degna di essere vissuta da tutta l’umanità,
Nel saggio Moltmann ricorda anche le riflessioni di Pierre de Coubertin, secondo cui lo sport deve avere come obiettivo quello di distendere gli animi e fare da anello di congiunzione tra i popoli e le nazioni. La pace può essere garantita solo dalla comunità mondiale dei popoli e l’Olimpiade è una grande occasione per far sì che ogni nazione sia unita e remi in un’unica direzione, quella dello sport. De Coubertin, per esprimere meglio la sua idea, utilizza il concetto di religio athletae, cioè una religione che deve unire i popoli e aprire la via a una futura pace universale. L’obiettivo dei Giochi olimpici deve essere, quindi, quello di trainare un’umanità frammentata in molte confessioni religiose verso un comune concetto di umanità pura, senza distinzioni di casta, razza e denaro.
Da questo punto di vista un bel segnale è la presenza in Brasile, e per la prima volta nella storia alle Olimpiadi, di una squadra composta da dieci atleti, scappati a guerre e violenze, sotto la bandiera del CIO (Comitato Olimpico Internazionale). Si tratta di un gruppo di sportivi selezionati tra i rifugiati, uomini e donne in fuga dagli orrori e dalle violenze del loro paese che all'improvviso si sono ritrovati in un altro luogo. Per questi rifugiati l’esperienza delle Olimpiadi, in un momento drammatico e tragico come quello che stanno vivendo, lontani dai propri cari e dalle loro terre, resterà un ricordo indelebile, un’emozione unica, un momento di gioia e di libertà.