Italic, 2016
pp. 67
12,00€
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Prendendo in mano la prima raccolta di poesie del catanese Pietro Russo svanisce il ricordo scolastico di cui la poesia è intrisa nell’immaginario di molti lettori, anche dei più forti. A questa vertigine è una raccolta densa. La patina che ricopre ogni componimento esala continui echeggi e rimandi letterari: le scelte retoriche e di composizione fanno scivolare il contenuto da un verso all’altro, tanto da esigere una forte concentrazione per scandire bene i testi fitti di cesure ed enjambement strategici. Eppure la lettura non si affatica perché in ognuna delle sei sezioni in cui la raccolta è suddivisa si avverte una forte compente di quotidianità e vita reale in grado di strappare il concetto stesso di poesia dall’iperuranio dove spesso viene relegata, per avvicinarla alle sensazioni semplice provate da chiunque. Una raccolta vicina anche a chi è digiuno di poesia, quindi, uno punto di partenza dal quale scoprire le meravigliose anse del fiume dei versi che scorre imperituro nella storia letteraria ma che sovente viene ignorato dalle generazioni più giovani.
Alcuni dei testi sono stati (seppur in versioni più o meno modificate rispetto a quelli della raccolta) ospitati su Poetarum Silva, L’Estroverso, Carteggi Letterari o in 4x10, a testimonianza di una lunga gestazione di un figlio che, una volta venuto al mondo, sembra esplodere nel suo carattere esplorativo.
Alcuni dei testi sono stati (seppur in versioni più o meno modificate rispetto a quelli della raccolta) ospitati su Poetarum Silva, L’Estroverso, Carteggi Letterari o in 4x10, a testimonianza di una lunga gestazione di un figlio che, una volta venuto al mondo, sembra esplodere nel suo carattere esplorativo.
In A questa vertigine c’è lo sport che è l’istante assoluto/ tra palla e polpastrelli/ solo luce e la sirena di 00:00 (nella prima sezione Come quello che non avremo), dal titolo doppio a piacimento punto di partenza o punto di arrivo; un arrivo che diventa Per tutti gli altri/ il vero verde finisce al minuto ottantanove/ all’incrocio dei pali in Falsi indizi, in cui l’agonismo scivola durante la lettura così come lo fanno le parole in enjambement tra il secondo e il terzo verso, dove l’impostazione retorica accompagna il pensiero. Il calcio è la disciplina che torna anche nel successivo componimento, scandito ritmicamente da cesure nette dove Contro ogni previsione/ si tiene è per i chilometri del terzino/ alla periferia della giocata, della lotta/mentre infuria sempre altrove, la diagonale/ precisa e con i tempi calcolati […].
C’è una terra in A questa vertigine, non a caso protagonista della sezione che l’autore stesso in nota definisce di evidente humus verghiano, dove a farla da padrona è la natura e i paesaggi di una Trinacria dal sapore atavico. Una Sicilia in cui poter riconoscere lo Spaccanapoli catanese in La lunga fuga, strada in cui sono gli stessi balconi nel bianco e nero/ di storie ascoltate tante volte, incorniciati/ alle pareti di qualche bar e la stessa/ è la lunga via di fuga barocca [… ]. Una terra da guardare con questa distanza (dal componimento omonimo) o che diventa il luogo teatro della lotta perenne tra l'odi et amo di una generazione, nel componimento più bello di tutta la raccolta (da me che sogno il nòstos da luoghi lontani più sentito di altri), Terminale, dove ogni terminal di aeroporto diventa un limen tra la propria presenza nel mondo e l’incapacità di realizzarla nel luogo in cui si è nati:
Dublino, come se avesse detto Pisa
Bordeaux o Sidney; non più nomi ora
o punti sull’atlante. Ultime chiamate
come, per altri, Polonia Londra Milano.
Puoi vederli, ognuno di loro, di pietra
davanti alla stessa schermata, persi
in una sola idea plurilingue da seguire:
Departures, Vertrek, Départs, Abflüge.
E puoi vedere anche noi da questa parte
che agitiamo una mano, attenti
a non staccare i piedi da terra, non
prendere il volo per nessuna ragione.
C’è l’indivudualità in A questa vertigine. Sul quesito ancestrale e perenne, mai fuori moda, che ogni essere umano si pone nel corso di tutta l’esistenza, il giovane Pietro-poeta viaggia in una identificazione spirituale (a tratti, probabilmente, anche religiosa) con Simon Pietro, e in Pietra gioca con le parole, dove le prime mosse di un movimento di rivoluzione delle anime coincidono con le prime mosse di un’esistenza che “… su questa pietra…” / avrei dovuto spaccarmici la testa, lasciare/ che il sangue mi abbandonasse a fiotti/ o cingerla al collo e giù nel primo fiume. Un’esistenza dagli inizi travagliati e che in Dopo è in grado di rispondere all’altro interrogativo esistenziale: Dopo/Cosa vuoi che succeda?
Non delude le aspettative di un lettore digiuno, A questa vertigine: nella raccolta il giovane poeta siciliano celebra l’amore in molte delle sue forme, dal già citato amore per la terra natìa, a quello filiale di Maria, in cui il gioco infantile che Con movimenti rapsodici/ dissemini il giorno di cubi, triangoli/ e altre forme viene descritto con una tenerezza che solo un padre può evocare e che tocca il picco massimo della profondità in Ora sei, componimento che chiude la raccolta e che in un puntino/ che palpita al centro di un monitor dipinge tutta l’esplosione della vita: leggendo si ha la sensazione di avvertire in sottofondo il battito di un cuore. Per giungere, infine, all’amore passionale, quello per cui C’è stato, è vero, anche quell’attimo./ Un uomo o donna ha detto: posso./ Solamente questo. e i corpi sono diventati un unico groviglio di respiri e palpiti e devi saperlo amore che una notte/ è una notte e un’altra e un’altra. Per sempre/ da qualche parte.
Cos’è, allora, questa vertigine? Nei componimenti di Pietro Russo la vertigine è al tempo stesso un’unità di misura concreta grazie alla quale poter calcolare l’altezza, ma è anche quella sensazione intima e profonda di vuoto che il fatto stesso di essere vivi nel mondo restituisce al momento di venire al mondo. In fondo, tuttavia, a questa vertigine (delle cose, delle sensazioni, delle percezioni) non si muore di certo.
Federica Privitera
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